domenica 20 novembre 2011

One shot one kill: tiratore scelto


Una celebre frase di Ernst Hemingway recitava: “ Non c’è niente come la caccia all’uomo. Chi ha cacciato abbastanza a lungo uomini armati e ha goduto di questa esperienza, da quel momento non si interesserà mai più veramente a nulla”. Questa frase è certamente rivolta ai soldati, ma in particolare a coloro che combattono una guerra silenziosa, lontano dai fragori della battaglia: i tiratori scelti. Non usiamo mai il termine “cecchino” poiché è considerato un dispregiativo; esso fu coniato durante la prima guerra mondiale dove gli Schutzen austriaci, fedeli appunto a Cecco Beppe (così era chiamato l’imperatore Francesco Giuseppe nel lombardo veneto) mietevano continue vittime tra i militari avversari. Il tiratore scelto, per il suo impiego tattico-strategico, è portato ad operare lontano dai grandi numeri. La squadra di sniper è, infatti, composta di regola da due persone: lo sniper e lo spotter (osservatore); essi lavorano fianco a fianco, in stretta simbiosi e comunque anche lo spotter è un abile tiratore. Ma chi sono i migliori tiratori scelti? A quale esercito appartengono? Nella storia nessuno può dimenticare i tiratori scelti dell’Armata Rossa (il film “Il nemico alle porte” di Annaud è un tributo a Vasilij Grigor'evič Zajcev il più famoso tiratore scelto sovietico) oppure le abili imprese della loro controparte tedesca. Ad oggi gli sniper hanno raggiunto un livello d’addestramento ottimale in pressoché tutti gli eserciti (gli italiani sono un po’ indietro, ad esclusione delle Forze Speciali ovvio!), ma la loro abilità e le loro tattiche si sono affinate grazie alla scuola del Corpo dei Marines: gli Scout Sniper.
Carlos Hathcock è stato il padre fondatore di questa scuola, il più abile tiratore scelto della storia dell’esercito degli Stati Uniti. Il suo record di tiro (2.550 iarde/2.286 metri) è rimasto a lungo imbattuto, se pensiamo poi che è stato effettuato con una mitragliatrice Browning M2 cal. 50 (cartucce BMG 50) e una semplice ottica montata sul castello, direi che è difficile a ripetersi. La storia di Hathcock è davvero incredibile e nel contempo tragica. La sua abilità come tiratore non nacque in ambito militare: da giovane frequentava i poligoni della sua città dimostrandosi subito un bravo “shooter”, soprattutto sulle lunghe distanze. Prima di essere un asso dei Marines, Carlos era già un campione degli Stati Uniti avendo vinto prestigiosi tornei in tutto il paese. La guerra in Vietnam lo portò nelle file dei Marines per poi diventare non un semplice tiratore, ma il tiratore scelto per eccellenza. In poco tempo la sua destrezza divenne leggendaria non solo tra gli americani, ma soprattutto tra i vietnamiti i quali – esasperati dalle pesanti perdite - misero su di lui una taglia di 50.000 dollari. Carlos era soprannominato “Long Tra'ng du'Kich” ovvero “il cecchino dalla penna bianca” per via di una candida piuma che portava sul suo berretto floscio. Ad Hathcock furono attribuite ben 93 uccisioni certificate, un record assoluto; lui stesso comunque non fece mai un gran vanto di essere un temibile “cacciatore di uomini”. Per Carlos si trattava di sopravvivere, ma soprattutto di uccidere un nemico il quale – se non ucciso – avrebbe a sua volta ammazzato numerosi giovani marines. Come fu nel caso di Apache, questo era il nome in codice che i marines avevano dato a una donna vietcong che catturava i soldati e soleva torturali di notte, all’aria aperta, affinché le loro urla giungessero fino alle basi americane. Hathcock riuscì a freddarla con un colpo solo…one shot one kill. La fama di Carlos tramontò durante il suo secondo turno in Vietnam: nel 1969, poco distanti da Khe Shan, il mezzo anfibio sul quale viaggiava esplose su una mina diventando un inferno di fuoco per gli occupanti. In pochi secondi il corpo dello sniper dei marines divenne una torcia: Carlos riportò ustioni gravissime sul 90% corpo ( di cui 43% di ustioni di terzo grado) venne subito evacuato e ricoverato in fin di vita in un reparto per grandi ustionati in Texas. La sua fibra e la sua volontà d’acciaio lo portarono fuori pericolo, ma non gli risparmiarono anni di dolori e atroci sofferenze dovute alle ustioni e ai continui interventi chirurgici per praticare degli innesti di pelle umana e animale. Nel 1975 la sciagura di Carlos Hathcock assunse toni irreparabili poiché gli fu diagnosticata la sclerosi multipla della quale aveva già accusato alcuni sintomi durante la sia permanenza al fronte. Fu un colpo terribile per un uomo già afflitto dal dolore! Ancora una volta la sua voglia di vivere prevalse su tutto: non appena fuori dall’ospedale volle riprendere servizio e grazie al suo eroismo (gli fu conferita la Stella d’Argento) e alla sua fama fu riammesso senza problemi nella base di Quantico. Più il tempo passava, però, più la malattia cominciava a inibire le sue capacità. Malgrado la sofferenza Carlos non smetteva di frequentare i poligoni di tiro: ogni colpo, però, era un supplizio. Nella sua biografia vengono descritti attimi terribili quando, nonostante il parere medico sfavorevole, continuava a partecipare a lunghe sessioni di tiro che gli procuravano la riapertura delle cicatrici e la conseguente fuoriuscita di sangue. A pochi anni dalla pensione, Carlos venne definitivamente congedato dal corpo dei marines: questo provocò in lui un grande senso di depressione, superato solo grazie alla moglie Jo e alla sua instancabile motivazione. La storia di Carlos Hathcock terminò il 23 febbraio 1999, quando esalò l’ultimo respiro. Una vita vissuta nel corpo dei marines per il quale Carlos aveva sacrificato tutto, anche la vita. Il padre fondatore di una delle scuole più prestigiose al mondo e che ancora oggi sforna i migliori tiratori scelti di tutti gli eserciti del mondo. L’ironia della sorte ha voluto che proprio il record di Hathcok venisse superato, poco tempo fa, non ad opera di un marines, ma grazie all’abilità di un tiratore canadese. Nel 2002 il caporale maggiore Graham Ragsdale della Princess Patricia's Canadian Light Infantry uccise un talebano alla distanza di 2.657 iarde/2.430 metri con un TAC 50.
Da chissà quale posto in cielo o all’inferno Carlos avrà messo mano al suo fucile per provare a batterlo di nuovo! (si raccomanda la lettura dell’unica biografia di Hathcock: “Tiratore scelto” di Charles Henderson, Longanesi, 2007).

sabato 5 novembre 2011

GRAZIE !!!!


La pioggia batte forte sui vetri di casa mia, non smette di piovere in questa Torino uggiosa e grigia! Non smette di cadere quest’acqua che lentamente sta ingrossando il fiume Po, un lungo serpente che è vicino al tracollo. Qui, infatti, si aspetta il peggio, ma per me il peggio è già avvenuto. Ieri la mia città, la mia Genova è stata ferita dalla forza dell’acqua e dall’incompetenza dei suoi amministratori; ieri il mio cuore andava a mille pensando a mia madre (che per fortuna era al sicuro), ma soprattutto a loro, i miei colleghi della Croce Bianca, sempre in prima linea per tutte le urgenze quotidiane. Impietrito davanti alle immagini di Via XX settembre allagata come nel 1970, a Brignole un mare di fango, per non parlare di Marassi dove il mio più caro amico ha la sua attività e la sua abitazione. Un altro amico in giro a fare il suo dovere quotidiano… il pensiero andava proprio a lui che la città la mantiene pulita, ma che contro la natura nulla può fare. Tutti i ragazzi che erano in sede…o in missione… e io senza poter fare nulla; il senso dell’impotenza è qualcosa che ti massacra. Hai voglia di scappare, di prendere la macchina e correre incontro a loro, gli amici. Ma non puoi anche perché, ragionando con razionalità, rischieresti di fare più un danno che altro. Genova era chiusa, schiacciata dal fango dei monti e dalla potenza del mare che rigettava indietro l’enorme massa d’acqua dei fiumi. Via Ferregiano: per anni sono transitato in quella via, sopra quella via… a casa del mio fraterno amico che si affacciava proprio sul letto del rio… un rio stretto, soffocato dalle erbacce e da altri tipi di oggetti non proprio figli della natura. Ora la stessa natura li ha respinti creando danni immensi. Scorrendo le foto pubblicate su Facebook (non sarò mai grato abbastanza a questo mezzo di comunicazione) vedo un’immagine di un’ambulanza schiacciata contro altri mezzi… è proprio una delle nostre, la 276 sulla quale sono salito mille volte. Ho pensato a coloro che erano dentro l’abitacolo, ma per fortuna sono subito stato informato che stavano bene e che le loro ferite si limitavano al gran spavento. Vedo ancora Via XX settembre e mi blocco sulle vie laterali e in particolare Via Cesarea dove ho lavorato per un anno… e sempre quell’anno ho vissuto personalmente una semi alluvione. Adesso quelle stesse stanze che erano sopravvissute e che avevo asciugato con cura… erano completamente sparite, inghiottite dal fango. Scorro ancora le foto e vedo Corso Torino… anche li ho qualcuno… i miei ex colleghi della redazione i quali sono riusciti a mettersi in salvo appena in tempo. E io fermo… immobile… prigioniero del destino che mi ha voluto lontano da casa, dai miei amici. Qui a Torino con il corpo, ma a Genova con l’anima, il cuore e il pensiero. Il pensiero fisso su quelle uniformi arancione che viaggiavano in mezzo alla gente e si mescolavano fra loro. Uniformi arancione che non smettono mai di lavorare, che non si arrendono, che sanno cosa è il dolore e la paura, ma la governano. Ragazzi qualunque, senza età, senza particolari doti da superman.. gente comune che decide di alzarsi la mattina e dedicare qualche ora del suo tempo agli altri. Una forza interiore che da sola fermerebbe il corso di mille fiumi… e così hanno fatto. Si perché loro lo hanno fatto… ciascuna divisa rappresentava un baluardo contro il dolore, una mano sicura verso chi non ce la faceva. A loro, ai miei amici, colleghi, come i fratelli di un unico “reggimento” di pace, a tutti coloro che hanno lavorato per la mia città va il mio commosso e sentito GRAZIE. Questa è l’unica Italia che amo, che voglio vedere e che morirei per difendere.

mercoledì 26 ottobre 2011

Forze davvero speciali


L’esercito più numeroso e meglio equipaggiato al mondo è sicuramente quello degli Stati Uniti il quale dispone di una potenza di fuoco ineguagliabile (anche se in questo ultimo periodo ha dato alcuni segni di cedimento). I soldati più esperti e preparati sono certamente quelli europei, in particolare gli appartenenti all’esercito di Sua Maestà Britannica, comprese le loro forze speciali, i mitici SAS o SBS. Ma su tutti esistono dei soldati i quali per una particolare circostanza della storia sono stati abituati al combattimento sin dalla loro nascita; sono i soldati migliori al mondo sotto tutti i punti di vista, compresi quelli negativi. A loro, i soldati dell’esercito israeliano, spetta il primato di combattività mondiale. Il livello dei semplici soldati di fanteria (Brigata del Golan o altre brigate meccanizzate o corazzate) è superiore alla media di qualsiasi soldato al mondo. I soldati israeliani, infatti, non solo si addestrano quotidianamente, ma combattono quasi ogni giorno (ed è corretto dire spesso non ad armi pari). Questo post non è politico, non può e non vuole entrare in questioni delicate come il conflitto con i palestinesi i quali, mi auguro per la comunità internazionale, ottengano presto il riconoscimento dei loro innegabili diritti. Tuttavia non stento a provare una certa ammirazione per Israele poiché è l’unico Stato in cui le parole “minaccia” e “terrorismo” hanno assunto una dimensione tale da diventare la prima preoccupazione per tutti i cittadini.
All’interno delle forze armate (in ebraico viene usato l’acronimo “Tzahal”) sono inclusi diversi reparti speciali i quali alcuni operano in collaborazione con l’esercito, ma anche in operazioni segretissime che non prevedo l’utilizzo della forza regolare.
Il primo reparto che mi viene in mente, forse il più famoso, è l’S-13 ovvero lo Shayetet 13 assimilabili ai Navy Seal della marina americana, ma molto più preparati. Non appartengono all’esercito, bensì alla marina e sono divisi in tre compagnie (in ebraico palga): assaltatori, subacquei, e reparto di superficie (si occupa principalmente dei mezzi e della logistica).
Come per tutte le forze speciali israeliane tutti coloro che aspirano a entravi devono superare il temibile gibush che include 4 mesi di preparazione basica di fanteria, 2 mesi di addestramento avanzato e 3 settimane di corso paracadutismo con specializzazioni quali l’HALO e l’HAHO. Il gibush è davvero un periodo allucinante, le prove di resistenza fisica conducono alla soglie del decesso anche se gli istruttori sanno di non dover superare un certo limite. Per avere un’idea di quello che aspetta un aspirante operatore delle SF israeliane basta leggere il bellissimo libro di Aaron Cohen “Fratelli guerrieri” così da farsi un’idea di quanto sia difficile superare anche un solo giorno del famigerato gibush. Una volta passata la terribile selezione i marinai israeliani accedono effettivamente al reparto e vengono trasferiti alla base navale di Atlit per un altro periodo di esercitazioni, questa volta strettamente legate alle attività degli incursori di marina dove si diventa dei provetti sommozzatori e ottimi sabotatori.
Dopo gli incursori della marina, l’IDF (Israeli Defence Force) e in particolare il settore dedito all’Intelligence dispone del Sayeret Matkal (tradotto in ebraico: Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore) la cui vocazione sono le missioni in profondità e di antiterrorismo. Tra i suoi compiti principali ci sono anche il recupero ostaggi in territorio ostile. Tra il loro palmares (per la maggior parte segreto) troviamo la famosa operazione Thunderbolt del 1976, la liberazione degli ostaggi a Entebbe nella quale perse la vita Yonatan Netanyahu, fratello del premier Benjamin “Bibi” Netanyahu. L’addestramento non differisce molto da quello dell’S-13, tuttavia i membri del Matkal devono superare ancora 5 settimane di corso antiterrorismo. Sono specialisti nel CQB (Close Quarter Battle), nella liberazione di ostaggi e in compiti più strettamente tecnici come la raccolta di informazioni, intelligence e altre specializzazioni “psicologiche”.
Tra le unità israeliane realmente segrete vi è il Duvdevan che letteralmente in ebraico significa “ciliegia” ad indicare la vera specialità di questa unità davvero molto peculiare. Gli elementi del Duvdevan percorrono lo stesso iter formativo delle altre SF tuttavia al momento di prendere servizio devono affrontare un ulteriore periodo di formazione che li trasformerà in una delle unità antiterrorismo più preparate e spietate al mondo. Essi sono addestrati ad operare in modalità mistà aravim (ovvero “alla maniera degli arabi”) nei territori occupati; gli operatori israeliani si muovono, parlano, vivono come i palestinesi, si confondono con essi ed entrano in azione improvvisamente senza troppi preavvisi. Informazioni ulteriori sono impossibili da reperire poiché risultano coperte da segreto.
Ogni unità di fanteria dell’esercito d’Israele è da considerarsi d’élite per le questioni che ho indicato in precedenza. Questa forte attitudine alla guerra porta sicuramente uno scompenso notevole nella società la quale vive una costante presenza dell’esercito nella vita quotidiana. Questo però trova una giustificazione in quello che accade quotidianamente sulle strade di Gerusalemme: gli attentati dinamitardi dei fondamentalisti palestinesi (e faccio notare che li distinguo da chi, tra i palestinesi, non è minimamente sfiorato dall’idea di farsi saltare in aria…. e il mio ottimismo mi induce a pensare che siano molti), i rapimenti e i missili rudimentali sparati da Hezbollah.

domenica 16 ottobre 2011

A come ambulanza…A come autista (2 parte)


Riprendiamo il discorso sulle Pubbliche Assistenze interrotto circa un mese fa quando feci qualche considerazione circa l’ambiente sociale e la prima esperienza di un “novellino”. Quando parlavo della squadra e dell’importanza che questa ha in una operazione di soccorso, anche la più banale, ho menzionato come figura di rilievo quella dell’autista ricordando, inoltre, che non per forza questa è legata ad una maggiore esperienza di servizio.
Sta di fatto che per quanto riguarda la responsabilità operativa di tutta l’urgenza l’autista è quello che rischia maggiormente e ha più responsabilità. Egli è, infatti, un soccorritore e condivide con gli altri la responsabilità sul paziente…in più gestisce (questa volta da solo) la responsabilità sul trasporto. In altre parole se lui non funziona, nessuno va da nessuna parte. Guidare nel traffico a sirene spiegate non è una cosa facile, l’ho provato personalmente e ci vuole sangue freddo (e questo non mi mancava), una buona vista (questo già di più) e una grande padronanza del mezzo e delle tecniche di guida (a me mancava soprattutto il senso della misura…). Scarti continui del volante su veicoli di gente realmente imbranata che non si sposta, attenzione ai mezzi come autobus o autoarticolati, estrema attenzione ai passanti, ma soprattutto estrema oculatezza nei confronti del codice stradale che, malgrado l’urgenza e la sirena, deve essere rispettato sempre.
Nella mia carriera da soccorritore ho avuto diversi autisti e devo dire che, tranne in alcuni casi, tutti sono stati straordinari e dotati di una resistenza alla guida davvero eroica. Quando militavo nella Croce Verde di Quinto ho avuto modo di confrontarmi con i migliori autisti che abbia mai conosciuto, messi costantemente alla prova non tanto dai servizi quotidiani, ma soprattutto dal famigerato e glorioso “Servizio Trapianti”. In poche ore dovevi arrivare da un punto all’altro della Penisola (nord Italia) in minor tempo possibile trasportando sia equipe medica, sia organi. Questo, a dire il vero, è il più bel servizio che abbia mai espletato (da autista mi è capitato poco, ma da navigatore spesso), in questo caso le doti di guida si abbinano ad un uso al limite dell’acceleratore (medie altissime e tempi da macchine da rally). Nel caso dei trapianti si partiva e si doveva arrivare in modo più puntuale preciso, pena la perdita dell’organo o l’arrivo in ritardo dei medici: in tutti e due i casi il presidente e il mitico Nando ti avrebbero fatto letteralmente a pezzi. Poi ci sono i servizi di urgenza normali e anche in questo caso ho assistito a veri numeri da circo (sempre tutto in massima sicurezza anche se, alle mie spalle, ho un buon numero di “toccate”). Ma chi sono gli autisti? Che carattere hanno? Quali sono i loro tipi di guida e da cosa li distingui?
La Croce Bianca Genovese dispone di ottimi autisti e devo dire la verità che, tolto il servizio trapianti, molti hanno delle affinità comuni; proprio su queste uguaglianze cominciamo una simpatica, ma quanto più possibile veritiera, catalogazione.
Categoria 1: i “grandi saggi”
In questa categoria l’anzianità non c’entra!Coloro che guidano da più tempo e uno svariato numero di mezzi non sono per forza dei matusa. I saggi sono coloro che hanno una innata capacità di guida e dispongono del settimo senso… quello del motore e del traffico. Sono già in anticipo rispetto a quello che accade davanti a loro, trovano strade che gli altri non pensano neppure esistano e ti portano su un codice rosso in tempi davvero utili alla sopravvivenza del paziente. Non ce ne sono tanti (io ho avuto e ho il privilegio di avere come autista uno di questi e non è una cariatide), sono creature taciturne che si aggirano per la sede accompagnate dalla loro inseparabile sigaretta. Non si esaltano mai, sono tranquilli e alla chiamata rispondono in modo impassibile sempre con la stessa espressione sia questa un codice verde o un codice rosso. Nel traffico dispongono di un radar interno e di un Santo protettore personale che li tiene fuori dai guai e di conseguenza mantengono viva tutta la squadra. Sembra che abbiano due mani, ma ne hanno di più, sono una sorta di Dea Calì del soccorso… guidano…cambiano…bestemmiano…rispondono alla radio…danno la selettiva… e ti tengono distanti da loro quando fanno curve a 90°. Apprezzano l’aiuto del soccorritore che sta davanti, ma non troppo… concedono di tanto in tanto di usare la radio e di dare la 5… ma la 6 è di loro assoluta priorità… la 8 forse te la concedono… insomma, l’abitacolo è il loro habitat naturale e NON gradiscono invasioni. Hanno tutti comunque una dote davvero importante che segna la differenza dagli altri… ammettono i propri errori.
Categoria 2: i “mi puzza di vivere”
Tra tutti i più pericolosi! Ne ho avuti alcuni al mio fianco e devo dire che rendo grazie al fatto di essere un paracadutista e quindi non temere l’effetto vuoto! Questa categoria non dispone di un solo Santo a loro protezione, bensì di uno S.W.A.T. Team di Santi che sorvegliano ogni loro manovra. Alla guida, è indubbio, sono solitamente molto in gamba, solo che amano smodatamente la velocità e il rischio. In urgenza non si pongono domande, se devono passare tra due macchine non prendono minimamente in considerazione le misure… queste sono una inutile perdita di tempo… ci passano e basta. Il tempo è una dimensione elastica, diceva Einstein, bene loro sono la prova che aveva ragione.. tutto è elastico intorno a loro, tutto si modella intorno alla scia che lasciano al loro passaggio. Loro non fanno urgenze, ma prove speciali. Amerebbero vedere sulla fiancata dell’ambulanza la targhetta con il loro nome, la bandierina italiana e il gruppo sanguigno, come le macchine da rally. La loro visione principale del mondo si riassume in poche parole: “nel dubbio schiaccia e fottiti delle precedenze”!
La loro presenza è una chiara minaccia alla salute dei direttori di macchina i quali considerano i mezzi come loro figlie e sanno che potrebbero essere stuprate da uno di questi maniaci!!! La mia esperienza mi ha insegnato che comunque sono persone affidabili, sono solo dei drogati di velocità, ma soprattutto (non nascondiamolo e non facciamo gli ipocriti) almeno una volta tutti vorrebbero salire con loro in ambulanza. Stomaco forte però…mi raccomando.
Categoria 3: i “nobili”
La loro nobiltà deriva dal loro stile di guida…impeccabile, ma soprattutto hanno la capacità di mantenere sempre la stessa medesima velocità. Ho avuto autisti dove non ti accorgevi se facevano un codice rosso, un trasporto, una passeggiata o andavano a prendersi semplicemente un gelato, insomma guidavano sempre e comunque alla stessa andatura. Se la categoria numero 2 sono i peggiori nemici dei direttori di macchina, i “nobili” rappresentano il loro ideale, i figli prediletti. Sono sicuri che porteranno sempre a casa la macchina intera, magari anche pulita poiché si sono fermati (con il paziente a bordo) in qualche autolavaggio. Sono i “nobili” che solitamente fanno saltare i nervi ai soccorritori che stanno al loro fianco: mi è capitato di entrare in agitazione su dei codici rossi perché sembrava non si arrivasse mai.. ma loro nulla.. sguardo fisso in avanti e constante controllo del conta chilometri…una gita insomma. Per loro il codice della strada non rappresenta un problema, se potessero si fermerebbero al semaforo rosso con le sirene accese! Una volta arrivati sul target non accostano, non mettono in sicurezza il mezzo, fanno di meglio…cercano parcheggio!
Categoria 4: “autisti per caso”
Quando arrivi in una P.A. e insisti subito per diventare un autista hai ottime possibilità per diventare un “autista per caso”. Qui la colpa è condivisibile tra colui che vuole guidare e il responsabile che glielo concede. Indubbiamente questo discorso si lega a quanto dicevo nella prima parte, cioè all’attrattiva rappresentata dalla sirena. Alcuni arrivano in sede e dopo poco tempo pretendono di mettersi alla guida di un mezzo senza la minima esperienza. Il bello è che il direttore di macchina qualche volta glielo concede, usando la modalità dei “rientri” come forma d’addestramento. La cosa peggiore però è che sovente a fare da istruttore a questi soggetti sono la categoria numero 1 – i “grandi saggi” - i quali si ritrovano nello scomodo ruolo di baby sitter. In alcuni casi nascono delle vere e proprie promesse del volante, in altri l’esperienza è negativa. Allora, in questo caso, ho hai la coerenza di dire “be non fa per me, comunque divento un bravo soccorritore!” oppure la sfrontatezza di affermare “bé guidano tutti… guido anche io” mutando dunque la tua condizione in “autista per caso”. Alla guida sono la drammatica somma di un vecchietto che ha paura della sua ombra e un tamarro che vuole provare la sua macchina…la combinazione è devastante! Ne viene fuori un vecchietto tamarro! Di questi autisti ne ho avuti pochissimi e cerco di tenerli bene a distanza. Se poi diventeranno qualcuno (faccio lo snob) potranno avere l’onore di avermi al loro fianco (ah ah ah ah !).

Rispetto a quanto detto sopra ci sono molti autisti che non sono catalogabili in queste categorie, sono quelle persone che prestano il loro servizio ogni mattina, magari uomini andati in pensione i quali al posto di fare la “muffa” in un bar o davanti alla televisione prendono una panda targata Croce Bianca e vanno a fare miriadi di servizi utili alla sopravvivenza della società. A loro va il mio abbraccio più grande e di gratitudine.

venerdì 9 settembre 2011

Dieci anni fa: 11 settembre 2011

Lo so che è scontato pubblicare un post sull’11 settembre…sono consapevole del rischio di cadere nella banale retorica… tuttavia, nel mio piccolo, penso meriti ricordare, anche solo in poche righe, quel giorno che ha cambiato effettivamente la storia del mondo. Bin Laden e George Bush hanno deciso di mutare per sempre i già fragili equilibri del pianeta. Equiparo Bush e Bin Laden sullo stesso piano? No, certo… sono stati due assassini di stampo diverso...ammetto semplicemente che Bin Laden è stato il terribile e sadico fautore dell’attentato, tuttavia Bush non ha fatto nulla per distinguersi con delle decisioni si forti, ma più oculate e portatrici di un effettivo cambiamento. Afghanistan e Iraq, due conflitti che durano ancora oggi, trascorsi dieci lunghi anni e che hanno stravolto lo scenario politico asiatico e medio orientale. Due guerre che hanno colpito indiscriminatamente popolazioni innocenti e terroristi (per fortuna qualcuno lo hanno preso), che hanno sradicato millenni di storia e di tradizioni! Si signori,e parlo di grandi tradizioni culturali… poiché il fondamentalismo islamico rappresenta una grave malattia sia per l’occidente, ma soprattutto per l’oriente. Non solo le bombe americane o inglesi hanno violentato quei paesi! Se pensiamo alle azioni dei talebani o alla politica di Saddam ci accorgiamo che poco hanno a che fare con l’Islam e la sua storia. I talebani pretendevano di riportare indietro un paese che già di suo versava in condizioni precarie, essi consideravano – e in questo caso forse senza troppe colpe – che l’unico rimedio alla guerra di clan e alla corruzione fosse la rigida interpretazione del Corano e costringere la popolazione a imitare il modello di vita di Maometto. Saddam Hussein (che, è bene rammentare, non era amato dai Talebani, anche se fratelli mussulmani) interpretava il Corano per supportare la sua personalità e la sua politica di dittatore. Due mondi sbagliati e due popoli che forse avrebbero fatto meglio a ribellarsi da soli, a capire che i dettami del Corano non erano proprio quelli imposti dalla Guardia Repubblicana di Saddam quando torturava gli oppositori. Un mondo folle e sbagliato che si è schiantato con tutta la sua violenza sui ben pensanti occidentali che a stento comprendevano cosa succedesse oltre il loro giardino. E invece tre aerei su due grattacieli e un palazzo governativo (il Pentagono) hanno portato il mondo occidentale alla drammatica realtà. “Finché muoiono tra di loro…” , un pensiero che ha sfiorato tutti quando si udivano e leggevano le violenze dei talebani commesse nei confronti della loro stessa popolazione, o i bollettini di guerra iracheni. Eh no! Troppo comodo! Il terrorismo prima di tutto è condivisione del dolore, questo è il suo vero significato: io soffro e devi soffrire anche tu! Questo è il vero significato stravolgente di quel giorno, dell’11 settembre: un mondo ha deciso di condividere il suo dolore con un altro mondo.
Qualche riga va dedicata ovviamente a quelli che sono stati gli eroi di quel giorno: gli americani tutti che hanno affrontato e superato un evento così terribile, i pompieri del FDNY che non meritano mai abbastanza amore e ringraziamenti per tutto quello che hanno fatto e che fanno ogni giorno, agli agenti del FDNY e dell’Autorità Portuale che hanno perso molti amici il cui valore non è certo inferiore ai colleghi pompieri, ai soccorritori EMS del FDNY che si sono prodigati a curare chi ne avesse bisogno. Ecco cosa è stato l’11 settembre, un grande giorno catastrofico che ha esaltato la virtù di pochi uomini come loro… leggiamolo così e dimentichiamo per un attimo la politica. Un pensiero ai caduti civili e ai vigili del fuoco del FDNY, ai poliziotti del NYPD e Port Authority. R.I.P.

mercoledì 31 agosto 2011

L’ambiguità talebana

In questi giorni sto leggendo e quasi terminando il libro di Massimo Fini sul Mullah Omar, il capo indiscusso dei talebani. Il libro di Fini ha suscitato grande scalpore e scorrendo tra le righe comprendo il perché: l’autore, infatti, cerca di sdoganare il Mullah Omar dall’etichetta di “mostro” spiegando che questa è una definizione ingiusta, diffusa a fini propagandistici dal mondo occidentale e in particolare dagli Stati Uniti. Secondo Fini, che mutua spesso il libro di Rashid sui talebani, spiega che l’arrivo al potere degli “studenti” (questo significa “talebani”) in Afghanistan negli anni Novanta è stato addirittura benefico poiché ha cancellato di fatto le diatribe di clan innescate dai signori della guerra, tra cui il celebre Massud e il famigerato Dostum. La rivoluzione talebana è stata fatta adottando una prospettiva all’indietro e non in avanti, come il termine “rivoluzione” sottintende. Il Mullah Omar, guida spirituale del movimento aveva, infatti, dichiarato di voler governare secondo la rigida interpretazione della sharia , la legge islamica, riportando l’Afghanistan indietro di secoli per vivere come ai tempi del profeta Maometto. E quasi ci era riuscito. Il modello talebano è stato – secondo Massimo Fini – un ottimo antidoto contro la corruzione e persino contro il traffico di oppio; non a caso proprio il Mullah Omar decise, per un periodo, di vietare e bloccare i mercanti di morte. Sul tavolo della discussione c’è poi la preoccupante e ambigua amicizia con Bin Laden: il terrorista saudita è presentato come un amico scomodo, ma forse necessario. Durante la guerra con l’Unione Sovietica, Osama e i soldi della CIA avevano dato un grosso aiuto agli insorti afghani e questo il Mullah non poteva dimenticarlo. Certo, Osama Bin Laden non dava nessuna certezza e con i suoi attentati orditi in tutto il mondo avrebbe sicuramente attirato sull’Afghanistan un’attenzione che Omar non voleva. Dopo l’11 settembre il presidente Bush chiese la testa del terrorista più ricercato al mondo, sapeva che il suo rifugio si trovava a Tora Bora, uno dei luoghi più remoti dell’Afghanistan. Sul Mullah Omar ricadeva quindi una dura responsabilità: cosa fare? Consegnare Bin Laden agli odiati americani simbolo negativo di una civiltà corrotta? La risposta è ben evidente…Omar non consegnò Bin Laden accettando così le conseguenze di un’ennesima invasione straniera. Quello che accadde nei primi mesi di guerra è noto a tutti, forse però non sono note le modalità con le quali gli americani affrontarono i primi mesi di un conflitto difficile e pericoloso. L’arroganza con la quale Bush e la sua cricca trattarono il popolo afghano ebbe il demerito di aumentare il consenso a favore dei talebani. Se prima c’era qualcuno disposto a sbarazzarsi di questi integralisti, dopo l’invasione statunitense cambiò idea. L’avventura afghana fu per gli Stati Uniti un passaggio obbligato per la successiva invasione dell’Iraq. Lo si capì da come affrontarono la prima fase della guerra: nessun piano concreto, nessun impegno sostanzioso, ma soprattutto nessuna strategia per ottenere il favore della popolazione nella guerra contro i talebani. Bombardare! Questa era la risposta che Donald Rumsfeld dava al Pentagono. I bombardamenti causarono la sconfitta dei talebani, verissimo, nondimeno le vere vittime furono per lo più civili, senza contare l’enorme consenso che raccolse il Mullah Omar il quale – costantemente in fuga - continuava a dirigere le operazioni. Nella mente di Omar permaneva certo un sentimento di sconfitta e frustrazione, tuttavia l’atteggiamento e la strategia alleata giocarono nettamente a suo favore. Ad attirare simpatie verso Omar ci fu anche la mossa americana di imporre al governo un personaggio come Hamid Karzai, simbolo della connivenza con gli occidentali e dell’uso smodato dei loro vizi, primo fra tutti la corruzione.
Tra le varie cose che attirano l’odio verso i talebani c’è la condizione in cui vivono le donne afghane. Già prima della guerra i movimenti femministi di tutto il mondo sollevarono la questione “burka” accusando i “barbuti religiosi” di violenza e crudeltà nei confronti delle donne. Riusciamo noi occidentali a entrare effettivamente nel merito del rapporto donne/Islam? Io, sinceramente, non oso addentrarmi più di tanto: capisco solo che le violenze commesse a scapito delle donne non sono solo una prerogativa islamica, anzi diciamo chiaramente che la violenza tout court non significa Islam, anzi è condannata dall’Islam. Il Corano, come la Bibbia, è oggetto di libera interpretazione secondo usi e costumi delle persone: in nessun passo Maometto inneggia alla guerra contro gl’infedeli…la Jihad significa un mare di cose, certo non guerra contro il mondo intero. Il Corano non dice di gettare acido in faccia alle donne… l’adulterio è punito dalla Bibbia come dal Corano con la stessa violenza.
Lanciarsi in facili giudizi è comunque molto semplice, quanto sia giusta la guerra contro l’Afghanistan non sta a me dirlo, posso solo dire che da quando la presidenza Obama e il generale Petraeus hanno preso seriamente in mano le cose, tutto è leggermente (impercettibilmente) migliorato. Non si applica più la tattica dell’anti terrorismo, ma della contro insorgenza… questo è stato un passo fondamentale. Quali sono le differenze??? Rimando ad altro post la spiegazione…

lunedì 29 agosto 2011

Volontari: le Pubbliche Assistenze (1a parte)


Ci siamo! Ho aspettato e riflettuto molto prima di scrivere questo post che tratta di una parte molto importante della mia vita: le Pubbliche Assistenze. Lascio per un attimo argomenti di cronaca e storia militare per entrare in un mondo che con l’ambiente militare ha molte cose in comune.
Facenti capo all’ANPAS, le Pubbliche Assistenze sono composte per la maggior parte da volontari e da un congruo numero di dipendenti, esse rappresentano un anello fondamentale di quella catena chiamata “soccorso sanitario” che qui in Italia poggia quasi interamente sul lavoro di queste associazioni. Ovviamente non possiamo dimenticare la Croce Rossa, sicuramente una delle istituzioni più blasonate e importanti a livello mondiale, tuttavia nella mia realtà, quella genovese, la “Rossa” è relegata a un ruolo secondario poiché buona parte del territorio cittadino è “coperto” dal servizio delle P.A. In particolare Genova risulta essere una delle città dove la presenza sul territorio è particolarmente densa, forse anche troppo.
Le Pubbliche Assistenze (la cui origine risale spesso ai primi del Novecento) sono strutture radicate sul territorio e in molti casi rappresentano un vero e proprio punto di riferimento per la cittadinanza. Ad esempio, la società dove ho iniziato (la Croce Verde di Quinto) era composta per la maggioranza da persone del quartiere, cresciute li dentro, con alle spalle anni e anni di militanza.
L’ambiente societario varia da luogo a luogo, tuttavia tutti hanno una cosa in comune: non sono luoghi la cui comprensione è semplice e immediata! Questo è imputabile a diversi fattori: il primo è legato sicuramente al carattere stesso della città, Genova, che tutti sappiamo non facile e molto chiusa, il secondo è invece connesso al discorso che facevo prima, quello dell’ambiente militare. Per chi le vede da fuori è, infatti, molto difficile giudicare e comprendere le logiche sociali e aggreganti che contraddistinguono il mondo delle P.A.: appena arrivi ti viene subito voglia di scappare, tuttavia se hai le capacità e il carattere per fermarti ti accorgerai che sono luoghi semplici ove vige la legge del gruppo anche se, apparentemente, vi è molta disgregazione. Mi spiego meglio: il primo impatto (come avveniva quando entravi in caserma per la prima volta) non è semplice, gli “anziani” ti squadrano da testa a piedi e cercano di capire dai tuoi atteggiamenti (quando molte volte basterebbe parlarti) che tipo sei, quali sono le tue potenzialità o se hai la “virtualità” di essere un rompi palle o, peggio ancora, un montato e/o esaltato. Questa prima indagine avviene poiché molti ragazzi accedono in una P.A. perché attratti da quei quattro lampioncini blu che, in mezzo al traffico, emettono un rumore sgradevole, seppure utile: le SIRENE. Per carità, questo non è un male purché sia un sentimento passeggero: le sirene sono la parte più semplice e scontata di quello che avviene durante un’emergenza sanitaria, ciò che conta è ben altro. Non puoi basare un’esperienza simile solo sull’adrenalina che da sfrecciare in mezzo al traffico…almeno non deve e non può essere solo questo. Su tale principio si comincia già a capire chi potrà essere un autista capace o un valido soccorritore. In questo senso un ruolo fondamentale è giocato dalla formazione del soccorritore. Parlo solo di soccorritore poiché è improbo forgiare dal nulla un bravo autista: a mio parere ci vogliono anche delle qualità innate che ti rendono capace alla guida (parla uno che non le ha e che per questo, molto coerentemente, ha lasciato perdere il volante per concentrarsi sul paziente). Chi si occupa di istruire il volontario di ambulanze deve insegnare tutto quanto concerne i presidi sanitari, il funzionamento dell’ossigeno ecc. ecc., ma deve soprattutto trasmettere alcuni principi fondamentali che sono l’educazione, l’umiltà e il rispetto. Se non ci pensa il formatore allora se ne occuperà la società stessa (intesa come i suoi membri), ma l’insegnamento sarà decisamente più traumatico!!!
Tutto appare semplice all’interno di una P.A. e in effetti lo è…una volta afferrato il meccanismo, tutto fila liscio come l’olio, ma bisogna capirlo! Bisogna avere l’umiltà di mettersi a disposizione di tutti, ma soprattutto è utile capire la logica “dell’ultimo arrivato”. Questa è la chiave di svolta. Se nel tuo cervello capisci che essendo l’ultimo arrivato devi comportarti bene e rispettare quelli più anziani di te, allora sei già a metà dell’opera. So già che alcuni diranno…ma questo è “nonnismo”…! Premesso che secondo la mia esperienza personale giudico che il “nonnismo” e il “caporalismo” fossero una parte fondamentale dell’addestramento militare, nessuno può negare che in ambienti ristretti e gerarchici il rispetto dell’anzianità sia il solo veicolo per riuscire, imparare e farsi a sua volta ben volere (attenzione: vero è che tra gli anziani capita anche di trovare cattivi maestri, ma son pur sempre li prima di te). Non ho mai visto sopravvivere a lungo arroganti, spavaldi, prepotenti o chiunque abbia tentato di cantare fuori dal coro. Questo è importante poiché in servizio si deve cantare in coro! I solisti creano guai e in ambulanza non esistono prime donne! La SQUADRA: tutto ruota intorno alla squadra la quale al suo interno ha certamente un suo ordine, ma tutti lavorano in una sola direzione, il benessere del paziente. All’interno di una squadra il potere principale è dato dall’esperienza: di solito tutti fanno riferimento al membro più anziano che non sempre corrisponde alla figura dell’autista.
Le P.A. non sono un ambiente per tutti poiché non si fanno cose che tutti anelano fare: l’ambulanza è un mezzo sul quale si corre…verissimo, pure divertente… ma dietro, nel cosiddetto vano sanitario non è tutto così piacevole. Sangue, vomito, drogati, ubriachi, anziani abbandonati, malati terminali, infarti, tragedie stradali, tentati suicidi e le tante storie che la strada racconta; da questo ben si capisce che la sirena è solamente una colonna sonora poco piacevole. Poi, come tutto questo venga affrontato e metabolizzato da chi lo fa…rimane un segreto personale, stretto gelosamente nella testa di ognuno di noi. Conosco persone molto sensibili o fredde come il ghiaccio, tutti però sanno che non si può dare troppa strada all’emozione poiché c’è un lavoro da fare e per quanto questo possa essere da semplici intermediari (tra il paziente e il medico di pronto soccorso) risulta basilare al fine del benessere comune. Non siamo medici né infermieri, tantomeno paramedici … ma solo e orgogliosamente soccorritori…!
Alla prossima puntata… sulle tipologie di autista che ho conosciuto e praticato!!!

martedì 23 agosto 2011

Vento nordafricano


Tunisia, Egitto, Libia tre paesi che si affacciano sul Mediterraneo il cui orizzonte punta direttamente sulle coste della nostra penisola e lo sanno bene gli abitanti di Lampedusa. Allo stesso modo in cui prende fuoco un bosco in questi giorni di grande caldo così, a gennaio, il nord Africa si è incendiato: il popolo tunisino scendeva in piazza mosso dall’atto di disperazione compiuto da un povero commerciante il quale, vessato dalla polizia, si dava fuoco davanti al palazzo del governo. Cominciava così la “rivolta” di un popolo che per anni aveva assistito all’arricchimento indiscriminato della sua classe dirigente e in particolare di Ben Ali. La caratteristica dei presidenti delle “repubbliche” africane è il loro comportamento, simile a quello di un monarca assoluto piuttosto che a un governatore democratico. I sovrani di Tunisia, Egitto e Libia rimanevano al potere perché protetti da un regime poliziesco e corrotto che assecondava le loro volontà attraverso l’applicazione del terrore. La “democrazia formale” era solamente per compiacere il mondo occidentale il quale chiudeva un occhio su quello che accadeva effettivamente. Questo silenzio assenso derivava dal fatto che il mondo occidentale pensava erroneamente – e i fatti di quest’anno lo dimostrano – che l’alternativa a questi dittatori era il fondamentalismo islamico. Inoltre, condannare il governo di un presidente con cui sei in affari non è certo conveniente!
Una rivolta…non si può, infatti, parlare di rivoluzione poiché la rivoluzione (e faccio riferimento al moto popolare per eccellenza: Francia 1789) era proiettata verso il riconoscimento dei diritti e dei doveri dei cittadini. Nel mondo arabo – spiega Tahar Ben Jelloun nel suo “La rivoluzione dei gelsomini” – ciò che viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. Qui si tratta invece di una rivolta senza un leader, senza una figura di riferimento, è una grande sollevazione contro l’autoritarismo tout court.
La prima a ribellarsi è stata dunque la Tunisia che con Habib Bourguiba, presidente della repubblica tunisina dal 1957 al 1987, aveva raggiunto un grado di evoluzione che l’aveva promossa a paese più evoluto del mondo arabo: riconoscimento dei diritti alle donne, divieto di poligamia, divorzio autorizzato e aborto legalizzato. Bourguiba era un rivoluzionario, l’unico ad aver sostenuto la laicità dello stato come primo valore, molti lo ricordano perché durante il periodo di ramadan si presentò alla televisione bevendo un bicchiere d’aranciata. Nel 1965 proponeva addirittura a tutti i paesi arabi di regolare i loro rapporti con Israele condannando la politica “del tutto o niente” che aveva portato i palestinesi alla sconfitta. Con la successione di Ben Ali il paese fece un grande passo indietro: il neo presidente aveva fatto credere che l’alternativa alla sua ingombrante presenza sarebbero stati i fondamentalisti! Con questo alibi il presidente tunisino ha fatto il bello e cattivo tempo per diversi anni riducendo il paese in povertà e arricchendo i suoi numerosi amici, anche europei.
Alla caduta di Ben Ali si è scoperto l’incredibile: la ricchezza raccolta da quest’uomo e in particolare dalla moglie, un’avvenente ex parrucchiera, avrebbe sanato il bilancio dello stato tunisino e permesso a milioni di persone una vita più dignitosa. Insisto, tutto questo sotto lo sguardo compiacente della Francia e dei paesi vicini.
Egitto, secondo “grande soffio” di questo vento nordafricano. Dopo Gheddafi, Mubarak è colui che incarna meglio la figura del dittatore nordafricano. Il suo governo durava dal 1981 quando subentrò ad Anwar al-Sadat assassinato durante una parata militare. Anche in questo caso il regime era protetto dalle compiacenze occidentali e questo non stupisce poiché l’importanza strategica dell’Egitto è nota a tutti: la sua vicinanza con Israele ha tolto il sonno a molti leader occidentali i quali temevano che i “Fratelli mussulmani” stessero guidando una rivolta fondamentalista. Anche in questo caso nulla di più falso: i “Fratelli mussulmani” erano e sono una minoranza in Egitto, la loro voce è importante ma non riescono a esprimere una maggioranza parlamentare. Nessuna delle rivolte alla quale abbiamo assistito inneggiava motti di tipo fondamentalista e, ancor più importante, nessun rivoltoso ha mai incendiato una bandiera americana o israeliana. Questo la dice lunga sulla matrice di questo movimento che in lingua araba si chiama Kifaya il cui significato è “ne abbiamo abbastanza”.
Questo grande moto popolare ha successivamente contaminato Libia dove, sono fatti di oggi, il carismatico Ghedaffi è caduto (almeno è quello che si dice) liberando il popolo libico da anni di dittatura. Anche in questo caso la figura fatta dall’occidente è a dir poco meschina, parlo in particolare della Francia e dell’Italia (sia il governo Prodi sia Berlusconi hanno sempre avuto un occhio di riguardo verso il leader librico e le sue amazzoni!) che in perfetto italian style ha rinnegato la parola data non appena le cose sono cambiate… e come sempre si casca in piedi!
(citazioni dal libro di Tahar Ben Jelloun “La rivoluzione del gelsomini”, Milano, Bompiani, 2011).

mercoledì 17 agosto 2011

Cani in guerra: il 1st Military Working Dog Regiment in Afghanistan


Se guardo indietro ai secoli scorsi, e in particolare alla seconda guerra mondiale, quando i russi attaccavano l’esplosivo sul dorso dei cani e li mandavano contro i Panzer tedeschi, il pensiero degli animali in guerra mi rattrista notevolmente. Oppure se penso agli esperimenti condotti dalla marina americana per l’impiego di delfini in attività bellicose anche questo crea in me qualche fastidio. Tuttavia i tempi sono cambiati e l’impiego degli animali, soprattutto dei cani, in ambito militare ha sicuramente avuto un’evoluzione positiva. Per questo motivo vorrei dedicare poche righe del mio blog all’impegno in Afghanistan del 1st Military Working Dog Regiment (facenta parte del RAVC Royal Army Veterinary Corps) dell’esercito britannico. I cani del reggimento, con i relativi padroni i quali vivono a stretto contatto con loro, giocano un ruolo fondamentale nella ricerca e nell’identificazione dei temibili IED (Improvised Explosive Devices) che ogni giorno mietono numerose vittime tra i militari dell’ISAF e tra i civili afghani. Una volta identificato l’ordigno entrano in azione gli artificieri del 29° Explosive Ordnance Disposal & Search Group così da mettere al sicuro cane, padrone e popolazione circostante!
Oltre a svolgere questo delicato incarico i cani contribuiscono al controllo giornaliero di strade, installazioni militari e all’identificazioni di presenze ostili durante le pattuglie. Il reggimento è composto da cinque squadroni (101°, 102°, 103°, 104° e 105°) e comprende 284 soldati e 200 cani. Gli squadroni sono dislocati in Inghilterra, ad Aldershot e North Luffenham, e in Germania a Sennelager.
Come detto in precedenza i cani e i padroni vivono in perfetta simbiosi così da formare una forte sinergia tra di loro; inoltre il rischio è equamente condiviso poiché trovarsi di fronte ad uno IED mette in pericolo la vita del cane e del militare/padrone. Ovviamente all’interno del reggimento militano numerosi veterinari che assicurano la salute dei “migliori amici dell’uomo”.

lunedì 8 agosto 2011

La lancia di Nettuno


Notte stellata, ma senza luna. Le pale degli elicotteri rompono il silenzio della notte sorvolando le cime di questo paese arido, duro e pieno di pericoli. Le montagne hanno fatto la storia di questa nazione, l’Afghanistan. Le cime aride e pietrose hanno sempre costituito una protezione e un rifugio per questo popolo che ha combattuto e combatte ancora oggi con un valore e una tenacia incredibile. Gli afghani, contrariamente agli iracheni, sono persone che non si arrendono facilmente. Prima gli inglesi, poi i russi e adesso americani, italiani, inglesi e chissà quanti altri ancora calpesteranno questa terra meravigliosa e terribilmente affascinante le cui città ricordano storie antiche: Kandahar, Kabul e il famoso passo del Khyber. Un popolo che non si piega e che ha dato alla storia contemporanea uno dei più grandi guerriglieri dopo Che Guevara: Ahamd Shah Massoud “il leone del Panshir”. Mi chiedo se questi pensieri abbiano sfiorato per un momento il gruppo di uomini imbarcati su quell’elicottero, 79 ragazzi non comuni che aspettavano da anni quel momento e proprio per quello erano stati addestrati duramente. Gli uomini dei Navy SEAL del Team Six (DEVGRU) che stavano prendendo parte all’operazione “Neptune Spear” (erroneamente riportata come operazione Geronimo), immaginavano che avrebbero incontrato resistenza, ma la sorpresa era un elemento importante e, al momento, nessuno sospettava del loro arrivo. L’operazione si sarebbe svolta su territorio amico, teoricamente, la piccola località di Abbotadad si trovava, infatti, a 50 km dalla capitale del Pakistan (Islamabad). Un paese che riceveva sovvenzioni americane, utili per il sostentamento della propria economia, ma fondamentali per la lotta contro il terrorismo. Nonostante l’appoggio del governo americano la CIA sapeva che il celebre ISI (Inter-Service Intelligence) del generale Musharraf non aveva una linea chiara con i talebani: sicuramente una parte li spalleggiava, passando importanti informazioni direttamente al clan dei Bin Laden. Questa volta, dunque, non era il caso di notificare un’operazione così delicata ad un alleato poco affidabile: se solo fosse trapelato qualcosa, l’uomo più ricercato del mondo sarebbe nuovamente fuggito. Gli uomini “rana” della marina americana temevano che qualche sporco “doppiogioco” – sia dell’ISI sia della CIA…per carità! - avrebbe potuto compromettere l’intera operazione. Troppe volte le truppe speciali statunitensi erano incappate in cattive figure nella conduzione di missioni ad alto rischio, ma questa volta non doveva succedere. Molti uomini avevano perso la vita dopo l’11 settembre, non solo a causa dell’attentato, ma anche grazie a una guerra “scriteriata” condotta dall’allora presidente George W. Bush. I SEAL, malgrado la loro alta preparazione, erano pur sempre semplici soldati e non stava a loro dichiarare guerre: a questo ci pensavano già i politici; loro dovevano solamente eseguire gli ordini e fare al meglio il loro mestiere. Certo, nella testa dei SEAL c’era un elemento morale in più: essi cercavano – vivo o morto - l’uomo che era riuscito a ferire al cuore gli Stati Uniti.
Un boato ruppe definitivamente il silenzio della notte pakistana! In una frazione di secondo la fortuna abbandonava il suo rapporto con la marina americana: un Black Hawk precipitò, senza danni o vittime, a causa di un malfunzionamento al rotore… adesso era solo questione di velocità di esecuzione, prima che l’allarme risuonasse in tutta la zona e in tutto il Pakistan! I SEAL (divisi in due team) scesero dall’elicottero, la loro notte si colorò improvvisamente del verde dei visori notturni che avevano davanti agli occhi. A chilometri di distanza, in America, qualcuno osservava ogni loro mossa: dalla Situation Room della Casa Bianca, il presidente Obama, Illary Clinton e tutto lo staff presidenziale seguiva con ansia l’impresa di questi pochi uomini. A pochi metri dal suolo, un drone registrava tutto quello che stava accadendo e il capo della CIA, Panetta, riferiva – come un navigato radiocronista – ogni mossa dei soldati americani. Tra i 79 coraggiosi che presero parte all’uccisione di Bin Laden c’era anche un cane, un pastore belga chiamato “Cairo” che – anche lui equipaggiato di tutto punto – aveva il compito di sorvegliare e segnalare eventuali fughe o incursioni pakistane all’interno dell’area operativa. In soli 15 minuti (i 15 minuti più lunghi della vita di Barak Obama!) le H&K 416 dei SEAL liquidarono Bin Laden, alcuni membri della sua famiglia e la sua esile scorta. Quindici minuti che hanno significato molto per la storia mondiale, ma che non hanno certo determinato la fine di Al Qaeda o ancor meno cambiato le sorti della guerra. Un’operazione militare che aveva più il sapore di una vendetta (legittima, giusta e condivisibile, bene inteso!) che non un obiettivo militare di grande importanza. Lo dimostra quanto sta succedendo in Afghanistan in questi giorni. La violenza dei talebani non si ferma, la loro logica, il loro ideale non era chiaramente legato alla figura di Bin Laden, non è nemmeno corretto assimilare i talebani ad Al Qaeda, ma questa è una questione che occuperebbe pagine e pagine di questo piccolo blog.

venerdì 5 agosto 2011

La Brigata motorizzata “Cremona” e il 21° “Alfonsine”



Tra le cose che vorrei fare in questo blog c’è quella di raccontare, in diversi post pubblicati in tempi diversi, la storia del “vecchio” esercito italiano, quello di “leva” composto da ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia e da ogni estrazione sociale, che puntualmente inquadrati in scaglioni venivano sparpagliati lungo la Penisola per un anno della loro vita. Non è un caso che voglia cominciare da quella che è stata la mia brigata con un approfondimento rivolto al battaglione del quale ho fatto orgogliosamente parte, il 21° battaglione di fanteria motorizzata (poi meccanizzata) “Alfonsine” caserma Valfré di Alessandria (tristemente soprannominata Alcatraz). Il mio blog ha addirittura cambiato nome per ricordare quell’anno chiamandosi 3° cp. Beirut, la mia compagnia il cui nome deriva dalla sua presenza in Libano negli anni Ottanta (come stemma aveva proprio il cedro libanese su fondo giallo e veniva indossato alla “israeliana”, non cucito, bensì infilato nella spallina della mimetica senza fermi). La Brigata motorizzata “Cremona” fu fondata nel 1859 e partecipò a tutti i principali avvenimenti bellici della storia italiana. La sua prima sede operativa fu stabilita a Genova e furono incorporati in essa i vecchi battaglioni disciolti nel 1849 ( il 19°, 20°, 21° e 22°). Dopo la Terza guerra d’indipendenza la “Cremona” venne riorganizzata con soli due reggimenti il 21° e il 22° (1881). Nel corso del primo conflitto mondiale i fanti della Cremona furono schierati sull’Isonzo e incorporati nella celebre III Armata. Partecipò a tutte le dodici battaglie dell’Isonzo fino a poi essere travolta nella ritirata di Caporetto e poi nella vittoriosa controffensiva del Piave che portò alla vittoria finale. Nella seconda guerra mondiale la brigata assunse la denominazione di Divisione di fanteria “Cremona” inquadrando il 21° e 22° reggimento di fanteria, il 7° di artiglieria e la 90a legione di assalto della MVSN. Nel 1940 combatté sul fronte francese, nel 1941 fu spostata in Sardegna e nel 1942 in Corsica. Dopo l’8 settembre 1943 la divisione giurò fedeltà al re e combatté contro le truppe tedesche a Zonza, nella stretta di San Polo, a Quaenza, Levie, Ponte Sorbolo e Val di Golo. Nel 1944 dopo un breve periodo in Sardegna fu costituita in Gruppo di combattimento Cremona al comando del generale Clemente Primieri. Il 12 gennaio 1944 fu inquadrata nella celebre 8° Armata Britannica e insieme ai canadesi e unità partigiane partecipò alla liberazione di Alfonsine, Adria, Mestre e Venezia.
Nel 1945 cominciò la lenta ricostruzione del futuro esercito della Repubblica. Nel 1951 si aggregò alla nuova divisione di fanteria “Cremona” il 157° “Liguria”, il XIV battaglione carri e il 1° Gruppo Esplorante Dragoni (Nizza) e il VI battaglione Bersaglieri. Dopo la ricostruzione dell’esercito del 1975 la divisione si trasformò in brigata motorizzata articolata su tre battaglioni di fanteria, un gruppo di artiglieria, un battaglione logistico, un reparto comando e trasmissioni una compagnia controcarro e una del genio. Nel 1990 la brigata passò alle dipendenze della nuova Regione Militare Nord-Ovest acquisendo il 4° battaglione di fanteria “Guastalla”. Nel 1993 la brigata meccanizzata “Cremona” si componeva nel comando e supporti tattici “Cremona”, il 21° reggimento fanteria “Cremona” (erede diretto del 21° Alfonsine) il 157° reggimento fanteria “Liguria” (i “leoni di Liguria” stanziati a Novi Ligure), il 26° reggimento di fanteria Bergamo, il 7° reggimento artiglieria “Cremona” e dal battaglione logistico “Cremona”. La Brigata “Cremona” venne poi sciolta il 15 novembre 1996.
Proprio nell’anno in cui l’esercito subì la prima grande trasformazione (1975) nasceva il 21° battaglione di fanteria “Alfonsine” che ereditò le tradizioni della brigata “Cremona”. Nel 1991 da motorizzato si trasformò in meccanizzato con l’arrivo degli M113; a dire il vero questo passaggio era già avvenuto a metà del 1990, ricordo, infatti, che molti soldati avevano già cambiato il fregio del loro basco aggiungendo il cingolato ai due fucili incrociati. Inoltre ricordo anche che molti miei “fratelli” di scaglione si erano recati a Verona per cominciare a caricare alcuni materiali di ricambio per i VTT (Veicoli Trasporto Truppe) comprese le canne delle Browning Cal. 50 (pesantissime). Esattamente due anni dopo il mio congedo (1991) il 21° battaglione Alfonsine si trasformò in 21° reggimento “Cremona” mantenendo per altro lo stesso stemma e lo stesso motto (Fortitudo mea in brachio – La mia forza sta nel braccio). Nel 1996 fu poi inquadrato nella Brigata “Centauro” alle dipendenze del 1° Comando delle Forze di Difesa. Nel corso della sua lunga vita il 21° ha preso parte a numerose operazioni militari e di soccorso alle popolazioni civili. Nel 1980 fu inviato in Irpina a dare aiuto alle persone terremotate e alla popolazione alluvionata nel comune di Morano sul Po. Ha partecipato alla campagna del Libano (ITALCON Libano) con la Terza compagnia (la mia) e poi all’operazione Vespri Siciliani. Nel 1990 durante la Guerra del Golfo tutte le caserme furono messe in stato di allerta e il 21°, una delle prime fra le caserme operative in Italia, fu mobilitato per la difesa di alcuni siti classificati “sensibili”: la Montefluos di Spinetta Marengo (comprensorio chimico) e la Michelin (fabbrica di gomme). Turni di guardia stremanti (6/2) in una località che dire fredda è poco… ma freddo umido, che ti entrava nelle ossa. Per più di una settimana siamo stati costretti a dormire vestiti e con il fucile accanto (sembra uno scherzo, ma è così), pronti a partire in qualunque istante e per qualsiasi destinazione. A dire il vero questo senso di precarietà era voluto anche dagli ufficiali ( i nostri erano particolarmente gasati) i quali, lungi dall’essere comprensivi in certe situazioni, facevano di tutto per stressarti ancora di più. Ma forse è questo il vero senso del servizio militare. I primi turni di guardia gli avevo fatti alla Michelin (6 ore di guardia e 2 di riposo poi regolarizzati a 4 di guardia e 2 di riposo, questo scompenso era determinato dal fatto che proprio durante l’emergenza del Golfo la mia caserma pativa il cosiddetto “buco di scaglione” ovvero su tre scaglioni che dovevano essere presenti al reparto c’è n’erano solo due il 5°/90 e l’ 8°/90) una fabbrica posizionata sulla piana alessandrina dove la sera il termometro scendeva – 15°! Se hai gl’indumenti giusti non lo patisci, tuttavia il nostro equipaggiamento non era certo quello delle truppe alpine e nemmeno paragonabile a quello della fanteria di oggi, tecnico e affidabile. Noi il freddo si soffriva e una sera, dopo numerose suppliche e qualche lacrima di disperazione, il tenente di servizio ci portò due coperte con le quali avvolgerci durante la pattuglia. Ricordo inoltre che nella mia sacca che conteneva la maschera antigas ci avevo messo una serie di tavolette di cioccolato e anche dei salamini (lo so che è vietato mangiare durante il servizio, ma chi se ne frega… si rischiava l’ipotermia), mentre il mio collega Marco aveva una sfilza di Cordiali che scaldavano l’anima (ma come ben sapete è un calore fittizio e se vogliamo pericoloso).
Sarebbero mille le cose da raccontare su quell’anno pazzesco, ma preferisco rimandarle in altri post. (Riferimenti storici sulla brigata tratti dalla voce wikipedia il resto sono solo esperienze personali).

sabato 30 luglio 2011

Il monumento dei Parà






In occasione dell’ultima ASSOARMA tenutasi il 2/3 luglio a Torino è stato inaugurato il monumento ai Paracadutisti. Un evento molto atteso da tutte le associazioni Anpd’I e da tutti gli ex appartenenti alla “Brigata”. Per partecipare a questa cerimonia ho rimandato anche la mia partenza per Genova, non potevo mancare ad un appuntamento così importante. La cerimonia si è svolta al parco del Valentino alla presenza di numerose persone e ai labari di molte sezioni Anpd’I, purtroppo mancava la mia, quella che mi ha tenuto al battesimo dell’aria: Gorizia. Tuttavia io credo che il basco amaranto accomuni tutti e non mi sentivo certamente solo. Questo basco amaranto tanto agognato e sudato che, badate bene, non significa essere della Folgore, ma significa condividerne lo spirito, i valori e soprattutto il cielo. Poi il brevetto con la stelletta e tutt’altra cosa, i paracadutisti militari – per quanto abbia ancora oggi senso parlare di lanci in massa di guerra – seguono un addestramento durissimo dove il “salto” è sicuramente la parte più facile. Tuttavia, nonostante tutto, il corso che frequentai nel lontano 1988 in quel di Gorizia non era stata certo una passeggiata di salute: due mesi e mezzo di esercizi massacranti scanditi dagli ordini dell’indimenticabile Vicki (un vero colosso).
Tralasciando i miei ricordi personali ho accolto con molto piacere la notizia dell’inaugurazione di un simile monumento in questa città la quale vanta una tradizione militare secolare…Torino è la tradizione militare italiana, l’esercito italiano trae origine dall’esercito sabaudo. Ricordo poche città che vantino un così alto numero di monumenti dedicati ai militari. Almeno una cosa buona questi Savoia l’hanno fatta…e non mi riferisco a quelli delle ultime generazioni (ballerini, spogliarelliste, assassini e puttane). Mi ha stupito anche il numeroso gruppo di baschi amaranto presenti… e l’accoglienza a loro riservata: ovviamente essendo un’ASSOARMA erano presenti le associazioni d’arma di tutte le specialità, compresa la mia vera, originale, dove ho ricevuto il mio addestramento (altrettanto duro) e ho trascorso un anno pieno di ricordi: la fanteria (21° battaglione di fanteria motorizzata/poi meccanizzata Alfonsine – Caserma Valfré / detta Alcatraz – Alessandria – Brigata Cremona). Insomma durante queste manifestazioni è come se avessi due anime…due baschi…nero e amaranto.
Il monumento, realizzato dallo scultore Gabriele Garbolino Ru, è stato fortemente voluto dall’Anpd’I di Torino per iniziativa del suo presidente Dario Ponzetto e progettato in collaborazione con il Comune di Torino. Esso rappresenta un paracadutista in piedi colto nel momento che precede il lancio nel vuoto. Il bassorilievo in bronzo è dedicato al Sergente Maggiore Mario Giretto, medaglia d’oro per i fatti di El Alamein. Sulla lapide è scolpita la dedica “Ai paracadutisti d’Italia Caduti sui campi di battaglia, nella missioni all’estero e sui campi di lancio – Onore e gloria”.
I caduti ricordati appartengono a tutte le guerre dal Nord Africa nel 1942 fino alla dura terra dell’Afghanistan dove, purtroppo, ancora oggi cadono numerosi baschi amaranto.
Uno speciale ringraziamento personale va a Paolo Viola paracadutista della sezione torinese che mi ha accolto nelle file amaranto della sezione e mi ha permesso di prendere parte alla sfilata (insieme alla mia agguerritissima fidanzata della Taurinense).

domenica 24 luglio 2011

In pace e in guerra


Cominciamo questa nuova stagione con la recensione di un libro che ho avuto modo di leggere in questi giorni: “In pace e in guerra” di Enrico Mannucci. Sinceramente mi aspettavo di più, tutte cose abbastanza note e presenti nelle varie riviste specializzate del settore, tuttavia, per chi vuole sapere tutto e subito questo è un ottimo libro. L’autore analizza i principali reparti speciali del nostro esercito: dal GOI al Col Moschin fino al Tuscania. Ne spiega addestramento, armamento e impiego nei nuovi scenari di guerra. Proprio il nuovo tipo di guerra, definita dagli specialisti LIC (Low Intensity Conflict – Conflitti a bassa intensità) ha spinto il nostro governo (con il patrocinio dell’allora presidente Cossiga) a rafforzare i reparti speciali. Dal conflitto in Yugoslavia fino all’Afghanistan le nostre forze speciali si sono distinte non solo per la loro attitudine aggressiva, ma soprattutto per aver raggiunto un giusto equilibrio tra la loro componente d’attacco e quella di mediazione rispecchiando così la peculiarità italiana che tende sempre a trovare un accomodamento tra le parti. Aggiungo che molto spesso il compito delle forze speciale è quello di evitare lo scontro raggiungendo lo stesso l’obbiettivo.
Il valore di questi “pochi” è indubbio, basta scorrere le fasi di preparazione che formano un incursore della Marina o del Col Moschin per capire che non è facile sopravvivere a quei ritmi e a quello stress. Tuttavia non dobbiamo pensare a questi ragazzi come a dei superman: sono uomini con pregi e difetti, ma soprattutto con i loro limiti. Quello che li contraddistingue dalla maggior parte delle altre persone è, a mio parere, la forza di volontà e la costanza nelle cose che fanno. La voglia di riuscire che vince anche sui momenti di difficoltà che normalmente si presentano nel corso della vita o di un iter addestrativo. Troppo spesso una certa opinione pubblica vede le nostre Forze Speciali come l’incarnazione di un qualcosa di negativo, espressione di un governo che vuole difendere i propri interessi economici senza aver cura del valore umano. Bene inteso è mia opinione personale che tra le ultime guerre combattute forse solo una ha, in effetti, un valore deterrente nei confronti del terrorismo: l’Afghanistan. Per quanto riguarda l’Iraq lo trovo uno dei più grandi fiaschi militari dopo la guerra nel Vietnam per non parlare poi del conflitto libico per il quale stento a trovare un valido motivo che spinga a mandare aerei a bombardare chissà cosa! Ma questa è politica e i militari, volenti o nolenti, sono solo delle pedine. Quello che continua a stupirmi però è l’indignazione che l’opinione pubblica prova ogni volta che un soldato muore…. Ma signori miei, sono secoli e secoli che I SOLDATI MUOIONO IN GUERRA, la guerra (anche se mascherata da missione di pace) genera morti e per quanto sia il rispetto che ad essi dobbiamo smettiamola di meravigliarci quando qualche povero ragazzo della Folgore o degli alpini cade vittima a causa di qualche IED. Comunque, bando alle disquisizioni politiche, lasciando spazio solo al valore indiscutibile di questi uomini che hanno fatto una scelta coscienti, di sicuro, che in guerra…bé si può anche morire.