mercoledì 31 agosto 2011

L’ambiguità talebana

In questi giorni sto leggendo e quasi terminando il libro di Massimo Fini sul Mullah Omar, il capo indiscusso dei talebani. Il libro di Fini ha suscitato grande scalpore e scorrendo tra le righe comprendo il perché: l’autore, infatti, cerca di sdoganare il Mullah Omar dall’etichetta di “mostro” spiegando che questa è una definizione ingiusta, diffusa a fini propagandistici dal mondo occidentale e in particolare dagli Stati Uniti. Secondo Fini, che mutua spesso il libro di Rashid sui talebani, spiega che l’arrivo al potere degli “studenti” (questo significa “talebani”) in Afghanistan negli anni Novanta è stato addirittura benefico poiché ha cancellato di fatto le diatribe di clan innescate dai signori della guerra, tra cui il celebre Massud e il famigerato Dostum. La rivoluzione talebana è stata fatta adottando una prospettiva all’indietro e non in avanti, come il termine “rivoluzione” sottintende. Il Mullah Omar, guida spirituale del movimento aveva, infatti, dichiarato di voler governare secondo la rigida interpretazione della sharia , la legge islamica, riportando l’Afghanistan indietro di secoli per vivere come ai tempi del profeta Maometto. E quasi ci era riuscito. Il modello talebano è stato – secondo Massimo Fini – un ottimo antidoto contro la corruzione e persino contro il traffico di oppio; non a caso proprio il Mullah Omar decise, per un periodo, di vietare e bloccare i mercanti di morte. Sul tavolo della discussione c’è poi la preoccupante e ambigua amicizia con Bin Laden: il terrorista saudita è presentato come un amico scomodo, ma forse necessario. Durante la guerra con l’Unione Sovietica, Osama e i soldi della CIA avevano dato un grosso aiuto agli insorti afghani e questo il Mullah non poteva dimenticarlo. Certo, Osama Bin Laden non dava nessuna certezza e con i suoi attentati orditi in tutto il mondo avrebbe sicuramente attirato sull’Afghanistan un’attenzione che Omar non voleva. Dopo l’11 settembre il presidente Bush chiese la testa del terrorista più ricercato al mondo, sapeva che il suo rifugio si trovava a Tora Bora, uno dei luoghi più remoti dell’Afghanistan. Sul Mullah Omar ricadeva quindi una dura responsabilità: cosa fare? Consegnare Bin Laden agli odiati americani simbolo negativo di una civiltà corrotta? La risposta è ben evidente…Omar non consegnò Bin Laden accettando così le conseguenze di un’ennesima invasione straniera. Quello che accadde nei primi mesi di guerra è noto a tutti, forse però non sono note le modalità con le quali gli americani affrontarono i primi mesi di un conflitto difficile e pericoloso. L’arroganza con la quale Bush e la sua cricca trattarono il popolo afghano ebbe il demerito di aumentare il consenso a favore dei talebani. Se prima c’era qualcuno disposto a sbarazzarsi di questi integralisti, dopo l’invasione statunitense cambiò idea. L’avventura afghana fu per gli Stati Uniti un passaggio obbligato per la successiva invasione dell’Iraq. Lo si capì da come affrontarono la prima fase della guerra: nessun piano concreto, nessun impegno sostanzioso, ma soprattutto nessuna strategia per ottenere il favore della popolazione nella guerra contro i talebani. Bombardare! Questa era la risposta che Donald Rumsfeld dava al Pentagono. I bombardamenti causarono la sconfitta dei talebani, verissimo, nondimeno le vere vittime furono per lo più civili, senza contare l’enorme consenso che raccolse il Mullah Omar il quale – costantemente in fuga - continuava a dirigere le operazioni. Nella mente di Omar permaneva certo un sentimento di sconfitta e frustrazione, tuttavia l’atteggiamento e la strategia alleata giocarono nettamente a suo favore. Ad attirare simpatie verso Omar ci fu anche la mossa americana di imporre al governo un personaggio come Hamid Karzai, simbolo della connivenza con gli occidentali e dell’uso smodato dei loro vizi, primo fra tutti la corruzione.
Tra le varie cose che attirano l’odio verso i talebani c’è la condizione in cui vivono le donne afghane. Già prima della guerra i movimenti femministi di tutto il mondo sollevarono la questione “burka” accusando i “barbuti religiosi” di violenza e crudeltà nei confronti delle donne. Riusciamo noi occidentali a entrare effettivamente nel merito del rapporto donne/Islam? Io, sinceramente, non oso addentrarmi più di tanto: capisco solo che le violenze commesse a scapito delle donne non sono solo una prerogativa islamica, anzi diciamo chiaramente che la violenza tout court non significa Islam, anzi è condannata dall’Islam. Il Corano, come la Bibbia, è oggetto di libera interpretazione secondo usi e costumi delle persone: in nessun passo Maometto inneggia alla guerra contro gl’infedeli…la Jihad significa un mare di cose, certo non guerra contro il mondo intero. Il Corano non dice di gettare acido in faccia alle donne… l’adulterio è punito dalla Bibbia come dal Corano con la stessa violenza.
Lanciarsi in facili giudizi è comunque molto semplice, quanto sia giusta la guerra contro l’Afghanistan non sta a me dirlo, posso solo dire che da quando la presidenza Obama e il generale Petraeus hanno preso seriamente in mano le cose, tutto è leggermente (impercettibilmente) migliorato. Non si applica più la tattica dell’anti terrorismo, ma della contro insorgenza… questo è stato un passo fondamentale. Quali sono le differenze??? Rimando ad altro post la spiegazione…

lunedì 29 agosto 2011

Volontari: le Pubbliche Assistenze (1a parte)


Ci siamo! Ho aspettato e riflettuto molto prima di scrivere questo post che tratta di una parte molto importante della mia vita: le Pubbliche Assistenze. Lascio per un attimo argomenti di cronaca e storia militare per entrare in un mondo che con l’ambiente militare ha molte cose in comune.
Facenti capo all’ANPAS, le Pubbliche Assistenze sono composte per la maggior parte da volontari e da un congruo numero di dipendenti, esse rappresentano un anello fondamentale di quella catena chiamata “soccorso sanitario” che qui in Italia poggia quasi interamente sul lavoro di queste associazioni. Ovviamente non possiamo dimenticare la Croce Rossa, sicuramente una delle istituzioni più blasonate e importanti a livello mondiale, tuttavia nella mia realtà, quella genovese, la “Rossa” è relegata a un ruolo secondario poiché buona parte del territorio cittadino è “coperto” dal servizio delle P.A. In particolare Genova risulta essere una delle città dove la presenza sul territorio è particolarmente densa, forse anche troppo.
Le Pubbliche Assistenze (la cui origine risale spesso ai primi del Novecento) sono strutture radicate sul territorio e in molti casi rappresentano un vero e proprio punto di riferimento per la cittadinanza. Ad esempio, la società dove ho iniziato (la Croce Verde di Quinto) era composta per la maggioranza da persone del quartiere, cresciute li dentro, con alle spalle anni e anni di militanza.
L’ambiente societario varia da luogo a luogo, tuttavia tutti hanno una cosa in comune: non sono luoghi la cui comprensione è semplice e immediata! Questo è imputabile a diversi fattori: il primo è legato sicuramente al carattere stesso della città, Genova, che tutti sappiamo non facile e molto chiusa, il secondo è invece connesso al discorso che facevo prima, quello dell’ambiente militare. Per chi le vede da fuori è, infatti, molto difficile giudicare e comprendere le logiche sociali e aggreganti che contraddistinguono il mondo delle P.A.: appena arrivi ti viene subito voglia di scappare, tuttavia se hai le capacità e il carattere per fermarti ti accorgerai che sono luoghi semplici ove vige la legge del gruppo anche se, apparentemente, vi è molta disgregazione. Mi spiego meglio: il primo impatto (come avveniva quando entravi in caserma per la prima volta) non è semplice, gli “anziani” ti squadrano da testa a piedi e cercano di capire dai tuoi atteggiamenti (quando molte volte basterebbe parlarti) che tipo sei, quali sono le tue potenzialità o se hai la “virtualità” di essere un rompi palle o, peggio ancora, un montato e/o esaltato. Questa prima indagine avviene poiché molti ragazzi accedono in una P.A. perché attratti da quei quattro lampioncini blu che, in mezzo al traffico, emettono un rumore sgradevole, seppure utile: le SIRENE. Per carità, questo non è un male purché sia un sentimento passeggero: le sirene sono la parte più semplice e scontata di quello che avviene durante un’emergenza sanitaria, ciò che conta è ben altro. Non puoi basare un’esperienza simile solo sull’adrenalina che da sfrecciare in mezzo al traffico…almeno non deve e non può essere solo questo. Su tale principio si comincia già a capire chi potrà essere un autista capace o un valido soccorritore. In questo senso un ruolo fondamentale è giocato dalla formazione del soccorritore. Parlo solo di soccorritore poiché è improbo forgiare dal nulla un bravo autista: a mio parere ci vogliono anche delle qualità innate che ti rendono capace alla guida (parla uno che non le ha e che per questo, molto coerentemente, ha lasciato perdere il volante per concentrarsi sul paziente). Chi si occupa di istruire il volontario di ambulanze deve insegnare tutto quanto concerne i presidi sanitari, il funzionamento dell’ossigeno ecc. ecc., ma deve soprattutto trasmettere alcuni principi fondamentali che sono l’educazione, l’umiltà e il rispetto. Se non ci pensa il formatore allora se ne occuperà la società stessa (intesa come i suoi membri), ma l’insegnamento sarà decisamente più traumatico!!!
Tutto appare semplice all’interno di una P.A. e in effetti lo è…una volta afferrato il meccanismo, tutto fila liscio come l’olio, ma bisogna capirlo! Bisogna avere l’umiltà di mettersi a disposizione di tutti, ma soprattutto è utile capire la logica “dell’ultimo arrivato”. Questa è la chiave di svolta. Se nel tuo cervello capisci che essendo l’ultimo arrivato devi comportarti bene e rispettare quelli più anziani di te, allora sei già a metà dell’opera. So già che alcuni diranno…ma questo è “nonnismo”…! Premesso che secondo la mia esperienza personale giudico che il “nonnismo” e il “caporalismo” fossero una parte fondamentale dell’addestramento militare, nessuno può negare che in ambienti ristretti e gerarchici il rispetto dell’anzianità sia il solo veicolo per riuscire, imparare e farsi a sua volta ben volere (attenzione: vero è che tra gli anziani capita anche di trovare cattivi maestri, ma son pur sempre li prima di te). Non ho mai visto sopravvivere a lungo arroganti, spavaldi, prepotenti o chiunque abbia tentato di cantare fuori dal coro. Questo è importante poiché in servizio si deve cantare in coro! I solisti creano guai e in ambulanza non esistono prime donne! La SQUADRA: tutto ruota intorno alla squadra la quale al suo interno ha certamente un suo ordine, ma tutti lavorano in una sola direzione, il benessere del paziente. All’interno di una squadra il potere principale è dato dall’esperienza: di solito tutti fanno riferimento al membro più anziano che non sempre corrisponde alla figura dell’autista.
Le P.A. non sono un ambiente per tutti poiché non si fanno cose che tutti anelano fare: l’ambulanza è un mezzo sul quale si corre…verissimo, pure divertente… ma dietro, nel cosiddetto vano sanitario non è tutto così piacevole. Sangue, vomito, drogati, ubriachi, anziani abbandonati, malati terminali, infarti, tragedie stradali, tentati suicidi e le tante storie che la strada racconta; da questo ben si capisce che la sirena è solamente una colonna sonora poco piacevole. Poi, come tutto questo venga affrontato e metabolizzato da chi lo fa…rimane un segreto personale, stretto gelosamente nella testa di ognuno di noi. Conosco persone molto sensibili o fredde come il ghiaccio, tutti però sanno che non si può dare troppa strada all’emozione poiché c’è un lavoro da fare e per quanto questo possa essere da semplici intermediari (tra il paziente e il medico di pronto soccorso) risulta basilare al fine del benessere comune. Non siamo medici né infermieri, tantomeno paramedici … ma solo e orgogliosamente soccorritori…!
Alla prossima puntata… sulle tipologie di autista che ho conosciuto e praticato!!!

martedì 23 agosto 2011

Vento nordafricano


Tunisia, Egitto, Libia tre paesi che si affacciano sul Mediterraneo il cui orizzonte punta direttamente sulle coste della nostra penisola e lo sanno bene gli abitanti di Lampedusa. Allo stesso modo in cui prende fuoco un bosco in questi giorni di grande caldo così, a gennaio, il nord Africa si è incendiato: il popolo tunisino scendeva in piazza mosso dall’atto di disperazione compiuto da un povero commerciante il quale, vessato dalla polizia, si dava fuoco davanti al palazzo del governo. Cominciava così la “rivolta” di un popolo che per anni aveva assistito all’arricchimento indiscriminato della sua classe dirigente e in particolare di Ben Ali. La caratteristica dei presidenti delle “repubbliche” africane è il loro comportamento, simile a quello di un monarca assoluto piuttosto che a un governatore democratico. I sovrani di Tunisia, Egitto e Libia rimanevano al potere perché protetti da un regime poliziesco e corrotto che assecondava le loro volontà attraverso l’applicazione del terrore. La “democrazia formale” era solamente per compiacere il mondo occidentale il quale chiudeva un occhio su quello che accadeva effettivamente. Questo silenzio assenso derivava dal fatto che il mondo occidentale pensava erroneamente – e i fatti di quest’anno lo dimostrano – che l’alternativa a questi dittatori era il fondamentalismo islamico. Inoltre, condannare il governo di un presidente con cui sei in affari non è certo conveniente!
Una rivolta…non si può, infatti, parlare di rivoluzione poiché la rivoluzione (e faccio riferimento al moto popolare per eccellenza: Francia 1789) era proiettata verso il riconoscimento dei diritti e dei doveri dei cittadini. Nel mondo arabo – spiega Tahar Ben Jelloun nel suo “La rivoluzione dei gelsomini” – ciò che viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. Qui si tratta invece di una rivolta senza un leader, senza una figura di riferimento, è una grande sollevazione contro l’autoritarismo tout court.
La prima a ribellarsi è stata dunque la Tunisia che con Habib Bourguiba, presidente della repubblica tunisina dal 1957 al 1987, aveva raggiunto un grado di evoluzione che l’aveva promossa a paese più evoluto del mondo arabo: riconoscimento dei diritti alle donne, divieto di poligamia, divorzio autorizzato e aborto legalizzato. Bourguiba era un rivoluzionario, l’unico ad aver sostenuto la laicità dello stato come primo valore, molti lo ricordano perché durante il periodo di ramadan si presentò alla televisione bevendo un bicchiere d’aranciata. Nel 1965 proponeva addirittura a tutti i paesi arabi di regolare i loro rapporti con Israele condannando la politica “del tutto o niente” che aveva portato i palestinesi alla sconfitta. Con la successione di Ben Ali il paese fece un grande passo indietro: il neo presidente aveva fatto credere che l’alternativa alla sua ingombrante presenza sarebbero stati i fondamentalisti! Con questo alibi il presidente tunisino ha fatto il bello e cattivo tempo per diversi anni riducendo il paese in povertà e arricchendo i suoi numerosi amici, anche europei.
Alla caduta di Ben Ali si è scoperto l’incredibile: la ricchezza raccolta da quest’uomo e in particolare dalla moglie, un’avvenente ex parrucchiera, avrebbe sanato il bilancio dello stato tunisino e permesso a milioni di persone una vita più dignitosa. Insisto, tutto questo sotto lo sguardo compiacente della Francia e dei paesi vicini.
Egitto, secondo “grande soffio” di questo vento nordafricano. Dopo Gheddafi, Mubarak è colui che incarna meglio la figura del dittatore nordafricano. Il suo governo durava dal 1981 quando subentrò ad Anwar al-Sadat assassinato durante una parata militare. Anche in questo caso il regime era protetto dalle compiacenze occidentali e questo non stupisce poiché l’importanza strategica dell’Egitto è nota a tutti: la sua vicinanza con Israele ha tolto il sonno a molti leader occidentali i quali temevano che i “Fratelli mussulmani” stessero guidando una rivolta fondamentalista. Anche in questo caso nulla di più falso: i “Fratelli mussulmani” erano e sono una minoranza in Egitto, la loro voce è importante ma non riescono a esprimere una maggioranza parlamentare. Nessuna delle rivolte alla quale abbiamo assistito inneggiava motti di tipo fondamentalista e, ancor più importante, nessun rivoltoso ha mai incendiato una bandiera americana o israeliana. Questo la dice lunga sulla matrice di questo movimento che in lingua araba si chiama Kifaya il cui significato è “ne abbiamo abbastanza”.
Questo grande moto popolare ha successivamente contaminato Libia dove, sono fatti di oggi, il carismatico Ghedaffi è caduto (almeno è quello che si dice) liberando il popolo libico da anni di dittatura. Anche in questo caso la figura fatta dall’occidente è a dir poco meschina, parlo in particolare della Francia e dell’Italia (sia il governo Prodi sia Berlusconi hanno sempre avuto un occhio di riguardo verso il leader librico e le sue amazzoni!) che in perfetto italian style ha rinnegato la parola data non appena le cose sono cambiate… e come sempre si casca in piedi!
(citazioni dal libro di Tahar Ben Jelloun “La rivoluzione del gelsomini”, Milano, Bompiani, 2011).

mercoledì 17 agosto 2011

Cani in guerra: il 1st Military Working Dog Regiment in Afghanistan


Se guardo indietro ai secoli scorsi, e in particolare alla seconda guerra mondiale, quando i russi attaccavano l’esplosivo sul dorso dei cani e li mandavano contro i Panzer tedeschi, il pensiero degli animali in guerra mi rattrista notevolmente. Oppure se penso agli esperimenti condotti dalla marina americana per l’impiego di delfini in attività bellicose anche questo crea in me qualche fastidio. Tuttavia i tempi sono cambiati e l’impiego degli animali, soprattutto dei cani, in ambito militare ha sicuramente avuto un’evoluzione positiva. Per questo motivo vorrei dedicare poche righe del mio blog all’impegno in Afghanistan del 1st Military Working Dog Regiment (facenta parte del RAVC Royal Army Veterinary Corps) dell’esercito britannico. I cani del reggimento, con i relativi padroni i quali vivono a stretto contatto con loro, giocano un ruolo fondamentale nella ricerca e nell’identificazione dei temibili IED (Improvised Explosive Devices) che ogni giorno mietono numerose vittime tra i militari dell’ISAF e tra i civili afghani. Una volta identificato l’ordigno entrano in azione gli artificieri del 29° Explosive Ordnance Disposal & Search Group così da mettere al sicuro cane, padrone e popolazione circostante!
Oltre a svolgere questo delicato incarico i cani contribuiscono al controllo giornaliero di strade, installazioni militari e all’identificazioni di presenze ostili durante le pattuglie. Il reggimento è composto da cinque squadroni (101°, 102°, 103°, 104° e 105°) e comprende 284 soldati e 200 cani. Gli squadroni sono dislocati in Inghilterra, ad Aldershot e North Luffenham, e in Germania a Sennelager.
Come detto in precedenza i cani e i padroni vivono in perfetta simbiosi così da formare una forte sinergia tra di loro; inoltre il rischio è equamente condiviso poiché trovarsi di fronte ad uno IED mette in pericolo la vita del cane e del militare/padrone. Ovviamente all’interno del reggimento militano numerosi veterinari che assicurano la salute dei “migliori amici dell’uomo”.

lunedì 8 agosto 2011

La lancia di Nettuno


Notte stellata, ma senza luna. Le pale degli elicotteri rompono il silenzio della notte sorvolando le cime di questo paese arido, duro e pieno di pericoli. Le montagne hanno fatto la storia di questa nazione, l’Afghanistan. Le cime aride e pietrose hanno sempre costituito una protezione e un rifugio per questo popolo che ha combattuto e combatte ancora oggi con un valore e una tenacia incredibile. Gli afghani, contrariamente agli iracheni, sono persone che non si arrendono facilmente. Prima gli inglesi, poi i russi e adesso americani, italiani, inglesi e chissà quanti altri ancora calpesteranno questa terra meravigliosa e terribilmente affascinante le cui città ricordano storie antiche: Kandahar, Kabul e il famoso passo del Khyber. Un popolo che non si piega e che ha dato alla storia contemporanea uno dei più grandi guerriglieri dopo Che Guevara: Ahamd Shah Massoud “il leone del Panshir”. Mi chiedo se questi pensieri abbiano sfiorato per un momento il gruppo di uomini imbarcati su quell’elicottero, 79 ragazzi non comuni che aspettavano da anni quel momento e proprio per quello erano stati addestrati duramente. Gli uomini dei Navy SEAL del Team Six (DEVGRU) che stavano prendendo parte all’operazione “Neptune Spear” (erroneamente riportata come operazione Geronimo), immaginavano che avrebbero incontrato resistenza, ma la sorpresa era un elemento importante e, al momento, nessuno sospettava del loro arrivo. L’operazione si sarebbe svolta su territorio amico, teoricamente, la piccola località di Abbotadad si trovava, infatti, a 50 km dalla capitale del Pakistan (Islamabad). Un paese che riceveva sovvenzioni americane, utili per il sostentamento della propria economia, ma fondamentali per la lotta contro il terrorismo. Nonostante l’appoggio del governo americano la CIA sapeva che il celebre ISI (Inter-Service Intelligence) del generale Musharraf non aveva una linea chiara con i talebani: sicuramente una parte li spalleggiava, passando importanti informazioni direttamente al clan dei Bin Laden. Questa volta, dunque, non era il caso di notificare un’operazione così delicata ad un alleato poco affidabile: se solo fosse trapelato qualcosa, l’uomo più ricercato del mondo sarebbe nuovamente fuggito. Gli uomini “rana” della marina americana temevano che qualche sporco “doppiogioco” – sia dell’ISI sia della CIA…per carità! - avrebbe potuto compromettere l’intera operazione. Troppe volte le truppe speciali statunitensi erano incappate in cattive figure nella conduzione di missioni ad alto rischio, ma questa volta non doveva succedere. Molti uomini avevano perso la vita dopo l’11 settembre, non solo a causa dell’attentato, ma anche grazie a una guerra “scriteriata” condotta dall’allora presidente George W. Bush. I SEAL, malgrado la loro alta preparazione, erano pur sempre semplici soldati e non stava a loro dichiarare guerre: a questo ci pensavano già i politici; loro dovevano solamente eseguire gli ordini e fare al meglio il loro mestiere. Certo, nella testa dei SEAL c’era un elemento morale in più: essi cercavano – vivo o morto - l’uomo che era riuscito a ferire al cuore gli Stati Uniti.
Un boato ruppe definitivamente il silenzio della notte pakistana! In una frazione di secondo la fortuna abbandonava il suo rapporto con la marina americana: un Black Hawk precipitò, senza danni o vittime, a causa di un malfunzionamento al rotore… adesso era solo questione di velocità di esecuzione, prima che l’allarme risuonasse in tutta la zona e in tutto il Pakistan! I SEAL (divisi in due team) scesero dall’elicottero, la loro notte si colorò improvvisamente del verde dei visori notturni che avevano davanti agli occhi. A chilometri di distanza, in America, qualcuno osservava ogni loro mossa: dalla Situation Room della Casa Bianca, il presidente Obama, Illary Clinton e tutto lo staff presidenziale seguiva con ansia l’impresa di questi pochi uomini. A pochi metri dal suolo, un drone registrava tutto quello che stava accadendo e il capo della CIA, Panetta, riferiva – come un navigato radiocronista – ogni mossa dei soldati americani. Tra i 79 coraggiosi che presero parte all’uccisione di Bin Laden c’era anche un cane, un pastore belga chiamato “Cairo” che – anche lui equipaggiato di tutto punto – aveva il compito di sorvegliare e segnalare eventuali fughe o incursioni pakistane all’interno dell’area operativa. In soli 15 minuti (i 15 minuti più lunghi della vita di Barak Obama!) le H&K 416 dei SEAL liquidarono Bin Laden, alcuni membri della sua famiglia e la sua esile scorta. Quindici minuti che hanno significato molto per la storia mondiale, ma che non hanno certo determinato la fine di Al Qaeda o ancor meno cambiato le sorti della guerra. Un’operazione militare che aveva più il sapore di una vendetta (legittima, giusta e condivisibile, bene inteso!) che non un obiettivo militare di grande importanza. Lo dimostra quanto sta succedendo in Afghanistan in questi giorni. La violenza dei talebani non si ferma, la loro logica, il loro ideale non era chiaramente legato alla figura di Bin Laden, non è nemmeno corretto assimilare i talebani ad Al Qaeda, ma questa è una questione che occuperebbe pagine e pagine di questo piccolo blog.

venerdì 5 agosto 2011

La Brigata motorizzata “Cremona” e il 21° “Alfonsine”



Tra le cose che vorrei fare in questo blog c’è quella di raccontare, in diversi post pubblicati in tempi diversi, la storia del “vecchio” esercito italiano, quello di “leva” composto da ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia e da ogni estrazione sociale, che puntualmente inquadrati in scaglioni venivano sparpagliati lungo la Penisola per un anno della loro vita. Non è un caso che voglia cominciare da quella che è stata la mia brigata con un approfondimento rivolto al battaglione del quale ho fatto orgogliosamente parte, il 21° battaglione di fanteria motorizzata (poi meccanizzata) “Alfonsine” caserma Valfré di Alessandria (tristemente soprannominata Alcatraz). Il mio blog ha addirittura cambiato nome per ricordare quell’anno chiamandosi 3° cp. Beirut, la mia compagnia il cui nome deriva dalla sua presenza in Libano negli anni Ottanta (come stemma aveva proprio il cedro libanese su fondo giallo e veniva indossato alla “israeliana”, non cucito, bensì infilato nella spallina della mimetica senza fermi). La Brigata motorizzata “Cremona” fu fondata nel 1859 e partecipò a tutti i principali avvenimenti bellici della storia italiana. La sua prima sede operativa fu stabilita a Genova e furono incorporati in essa i vecchi battaglioni disciolti nel 1849 ( il 19°, 20°, 21° e 22°). Dopo la Terza guerra d’indipendenza la “Cremona” venne riorganizzata con soli due reggimenti il 21° e il 22° (1881). Nel corso del primo conflitto mondiale i fanti della Cremona furono schierati sull’Isonzo e incorporati nella celebre III Armata. Partecipò a tutte le dodici battaglie dell’Isonzo fino a poi essere travolta nella ritirata di Caporetto e poi nella vittoriosa controffensiva del Piave che portò alla vittoria finale. Nella seconda guerra mondiale la brigata assunse la denominazione di Divisione di fanteria “Cremona” inquadrando il 21° e 22° reggimento di fanteria, il 7° di artiglieria e la 90a legione di assalto della MVSN. Nel 1940 combatté sul fronte francese, nel 1941 fu spostata in Sardegna e nel 1942 in Corsica. Dopo l’8 settembre 1943 la divisione giurò fedeltà al re e combatté contro le truppe tedesche a Zonza, nella stretta di San Polo, a Quaenza, Levie, Ponte Sorbolo e Val di Golo. Nel 1944 dopo un breve periodo in Sardegna fu costituita in Gruppo di combattimento Cremona al comando del generale Clemente Primieri. Il 12 gennaio 1944 fu inquadrata nella celebre 8° Armata Britannica e insieme ai canadesi e unità partigiane partecipò alla liberazione di Alfonsine, Adria, Mestre e Venezia.
Nel 1945 cominciò la lenta ricostruzione del futuro esercito della Repubblica. Nel 1951 si aggregò alla nuova divisione di fanteria “Cremona” il 157° “Liguria”, il XIV battaglione carri e il 1° Gruppo Esplorante Dragoni (Nizza) e il VI battaglione Bersaglieri. Dopo la ricostruzione dell’esercito del 1975 la divisione si trasformò in brigata motorizzata articolata su tre battaglioni di fanteria, un gruppo di artiglieria, un battaglione logistico, un reparto comando e trasmissioni una compagnia controcarro e una del genio. Nel 1990 la brigata passò alle dipendenze della nuova Regione Militare Nord-Ovest acquisendo il 4° battaglione di fanteria “Guastalla”. Nel 1993 la brigata meccanizzata “Cremona” si componeva nel comando e supporti tattici “Cremona”, il 21° reggimento fanteria “Cremona” (erede diretto del 21° Alfonsine) il 157° reggimento fanteria “Liguria” (i “leoni di Liguria” stanziati a Novi Ligure), il 26° reggimento di fanteria Bergamo, il 7° reggimento artiglieria “Cremona” e dal battaglione logistico “Cremona”. La Brigata “Cremona” venne poi sciolta il 15 novembre 1996.
Proprio nell’anno in cui l’esercito subì la prima grande trasformazione (1975) nasceva il 21° battaglione di fanteria “Alfonsine” che ereditò le tradizioni della brigata “Cremona”. Nel 1991 da motorizzato si trasformò in meccanizzato con l’arrivo degli M113; a dire il vero questo passaggio era già avvenuto a metà del 1990, ricordo, infatti, che molti soldati avevano già cambiato il fregio del loro basco aggiungendo il cingolato ai due fucili incrociati. Inoltre ricordo anche che molti miei “fratelli” di scaglione si erano recati a Verona per cominciare a caricare alcuni materiali di ricambio per i VTT (Veicoli Trasporto Truppe) comprese le canne delle Browning Cal. 50 (pesantissime). Esattamente due anni dopo il mio congedo (1991) il 21° battaglione Alfonsine si trasformò in 21° reggimento “Cremona” mantenendo per altro lo stesso stemma e lo stesso motto (Fortitudo mea in brachio – La mia forza sta nel braccio). Nel 1996 fu poi inquadrato nella Brigata “Centauro” alle dipendenze del 1° Comando delle Forze di Difesa. Nel corso della sua lunga vita il 21° ha preso parte a numerose operazioni militari e di soccorso alle popolazioni civili. Nel 1980 fu inviato in Irpina a dare aiuto alle persone terremotate e alla popolazione alluvionata nel comune di Morano sul Po. Ha partecipato alla campagna del Libano (ITALCON Libano) con la Terza compagnia (la mia) e poi all’operazione Vespri Siciliani. Nel 1990 durante la Guerra del Golfo tutte le caserme furono messe in stato di allerta e il 21°, una delle prime fra le caserme operative in Italia, fu mobilitato per la difesa di alcuni siti classificati “sensibili”: la Montefluos di Spinetta Marengo (comprensorio chimico) e la Michelin (fabbrica di gomme). Turni di guardia stremanti (6/2) in una località che dire fredda è poco… ma freddo umido, che ti entrava nelle ossa. Per più di una settimana siamo stati costretti a dormire vestiti e con il fucile accanto (sembra uno scherzo, ma è così), pronti a partire in qualunque istante e per qualsiasi destinazione. A dire il vero questo senso di precarietà era voluto anche dagli ufficiali ( i nostri erano particolarmente gasati) i quali, lungi dall’essere comprensivi in certe situazioni, facevano di tutto per stressarti ancora di più. Ma forse è questo il vero senso del servizio militare. I primi turni di guardia gli avevo fatti alla Michelin (6 ore di guardia e 2 di riposo poi regolarizzati a 4 di guardia e 2 di riposo, questo scompenso era determinato dal fatto che proprio durante l’emergenza del Golfo la mia caserma pativa il cosiddetto “buco di scaglione” ovvero su tre scaglioni che dovevano essere presenti al reparto c’è n’erano solo due il 5°/90 e l’ 8°/90) una fabbrica posizionata sulla piana alessandrina dove la sera il termometro scendeva – 15°! Se hai gl’indumenti giusti non lo patisci, tuttavia il nostro equipaggiamento non era certo quello delle truppe alpine e nemmeno paragonabile a quello della fanteria di oggi, tecnico e affidabile. Noi il freddo si soffriva e una sera, dopo numerose suppliche e qualche lacrima di disperazione, il tenente di servizio ci portò due coperte con le quali avvolgerci durante la pattuglia. Ricordo inoltre che nella mia sacca che conteneva la maschera antigas ci avevo messo una serie di tavolette di cioccolato e anche dei salamini (lo so che è vietato mangiare durante il servizio, ma chi se ne frega… si rischiava l’ipotermia), mentre il mio collega Marco aveva una sfilza di Cordiali che scaldavano l’anima (ma come ben sapete è un calore fittizio e se vogliamo pericoloso).
Sarebbero mille le cose da raccontare su quell’anno pazzesco, ma preferisco rimandarle in altri post. (Riferimenti storici sulla brigata tratti dalla voce wikipedia il resto sono solo esperienze personali).