lunedì 29 dicembre 2008

Babbo Natale è morto a Gaza


Apro gli occhi per un attimo dai miei deliri newyorchesi e cosa trovo? Guerra. Una nuova guerra in Medio Oriente, stancante, barbara, mossa dai soliti motivi…incessante. Hamas spara, Israele risponde… ecco un attimo una scintilla e l’incendio mediorientale diventa nuovamente un falò di proporzioni gigantesche che nessuno nella comunità internazionale riesce a controllare. Nessuno riesce a capire quale sia la chiave che chiuda per sempre la cassa di Marte. In televisione vedo donne palestinesi che piangono i loro morti, le stesse donne che inneggiano contro Israele e che non esiterebbero a sacrificare il proprio figlio per la guerra santa; dall’altra parte vedo i Merkava israeliani accanirsi contro villaggi di povera gente che, in qualche modo, non può fare proprio nulla se non difendersi tirando anche solo semplici pietre. Prendere la ragione di qualcuno? Non ce la faccio, malgrado la mia propensione e il mio attaccamento al popolo ebraico. Sottolineo popolo ebraico non Israele, e le cose, come sappiamo, sono ben diverse. Israele è aggredito, sempre comunque, ha ormai la sindrome di chi può essere distrutto da un momento all’altro, vive nell’ansia. Un apprensione che si porta dietro dal lontano 1948 quando la stessa Lega Araba che ora si chiama fuori dalla questione tentando una flebile mediazione, lo aveva aggredito cercando d’impedirne la formazione politica. La comunità internazionale che fa? Gli Stati Uniti, da sempre amici e fratelli degli israeliani? Bella gatta da pelare per il povero Barak Obama il quale non può negare l’amicizia con la Knesset, ma deve condannare quanto sta accadendo seguendo la sua linea politica.
Perché Hamas continua questa guerra cha la stessa ANP rifiuta di combattere? Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, il 18 giugno 2007, ha messo al bando le milizie di Hamas, eppure il suo volere è rimasto inascoltato…troppa gente che continuava a soffrire..una sofferenza alimentata dalla fame che ogni giorno aggredisce, più feroce degli F-16 israeliani, i campi dei palestinesi dove vivono (per modo di dire) ammassati migliaia di donne, vecchi e bambini.
Israele è una grande nazione, ma è abituata ormai alla condizione di guerra. Certo una qualche responsabilità gli arabi ce l’hanno, sicuramente è agli occhi di tutti. È pur vero che, dall’alto della sua potenza militare, Israele dovrebbe capire come e quando fermarsi. La strategia dell’attacco e della distruzione del nemico fino all’ultimo uomo non rientra nella logica di questo secolo.
Tendere una mano? Ma farlo veramente con gesti concreti che riguardano la popolazione e non la politica dei capi di stato. Farlo per la gente in mezzo alla gente. Lo so, lo so è una semplice utopia, forse priva di senso. Un inutile sentimentalismo che mi porta a continuare a non scegliere da che parte stare e chi si arroga il diritto di farlo, indossando una bandiera palestinese e bruciandone una israeliana, non ha capito proprio nulla. Nessuno può capire e me ne sono accorto questa estate quando a tavola con me, a New York, era seduta una ragazza libanese…ho provato a sostenere le tesi israeliane per un limitato secondo..poi ho rinunciato. La sua esperienza, le sue lacrime e quelle della sua famiglia che hanno sofferto e visto la città più bella del Medio Oriente, Beirut, distrutta, hanno cancellato ancora una volta tutte le mie convinzioni. Continuo a non schierarmi e non lo farò mai.

giovedì 17 luglio 2008

Hel Ha’Avir - Lo scudo di David (1 parte)


Dopo un po’ di post di argomento generale è con grande piacere che mi rituffo in quella che è la mia materia, la storia militare. L’unico collegamento con i post precedenti è il Medio Oriente, infatti, in queste prima parte (la seconda arriverà a settembre), vorrei parlare di una delle forze aeree meglio addestrate e più potenti al mondo: l’aviazione Israeliana. La forza area con la Stella di David nasce nel 1948, lo stesso anno in cui prendeva forma la costituzione dello Stato d’Israele. All’atto di fondazione lo Stato ebraico, guidato da David Ben Gurion, fu immediatamente aggredito da una coalizione araba formata da Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania. I bagliori della guerra misero subito alla prova la neonata forza aerea israeliana che aveva in dotazione aerei obsoleti, residuati dell’ultimo conflitto mondiale: i tedeschi Messerchmitt BF 109 e i britannici Spitfire. Per di più i piloti non erano assolutamente addestrati al combattimento giacché provenivano quasi tutti dall’aviazione civile. La prima guerra arabo-israeliana fu vinta grazie alla fanteria e all’impiego magistrale dei mezzi corazzati di Moshe Dayan; nonostante tutto anche l’aviazione ottenne successi insperati attribuibili soprattutto alla temerarietà dimostrata dai piloti. Dal 1950 in poi le cose cominciarono a cambiare grazie all’invio di nuovi aerei da parte della Francia e, successivamente, dagli Stati Uniti. La vera prova del fuoco per l’ Hel Ha’Avir arrivò con la Guerra dei Sei Giorni scoppiata il 5 giugno 1967. Il comandate dei reparti aerei, il maggiore generale Mordechai “Mottie” Hod fu il principale fautore della vittoria sulla seconda alleanza araba. Dopo giorni di stressanti trattative per scongiurare la guerra, lo stato maggiore israeliano, guidato da Moshe Dayan e Yitzhak Rabin, prese l’iniziativa approvando l’attuazione del piano “Focus” (Moked). Questo prevedeva la distruzione, in poche ore, dell’intero arsenale aereo egiziano attraverso una serie di attacchi mirati verso le principali basi aeree di Nasser. I caccia egiziani aspettavano, da un momento all’altro, l’attacco d’Israele, tutti i piloti pensavano però che gli aerei avversari si sarebbero levati in volo alle prime luci dell’alba e dunque, non appena il sole fu ben alto, venne ordinato agli aviogetti di pattuglia di rientrare alla base. A livello politico poi, il presidente Nasser, il feldmaresciallo Amer e il tenente generale Sidqi Mahmoud erano certi che il primo ministro israeliano, Levi Eshkol, non avrebbe mai autorizzato un attacco preventivo senza il consenso degli Stati Uniti i quali, sin dai primi giorni della crisi, avevano supplicato il governo israeliano di non raccogliere le provocazioni egiziane.
Mentre nelle basi del Sinai i piloti e il personale di terra svolgeva regolare servizio, gli aerei israeliani avevano già lasciato la pista e stavano volando, quasi rasoterra, verso i loro obiettivi. Una volta giunti in prossimità degli aeroporti egiziani i caccia-bombardieri israeliani cabrarono fino a 2500 metri d’altezza per poi cominciare la picchiata sui loro obiettivi. Quando nelle stazioni radar egiziane si accorsero della presenza massiccia di caccia nemici, era ormai troppo tardi. In pochi minuti gli aerei di Tel-Aviv piombarono come falchi sugli hangar dell’aviazione militare egiziana: grazie alle potenti bombe BLU 107 Durandal le piste furono devastate e rese inutilizzabili, la maggior parte degli aerei fu distrutta al suolo mentre, i pochi MIG egiziani che riuscirono a staccarsi da terra, vennero subito intercettati e abbattuti dai Mirage di “Mottie” Hod. Tra gli obiettivi principali dell’aviazione israeliana c’erano 30 bombardieri di fabbricazione sovietica TU-16 “Badger” i quali, se si fossero diretti verso le città d’Israele, avrebbero inflitto una dura lezione alla popolazione civile. Il successo di Focus costò all’aviazione di Nasser la perdita di circa 300 aerei e 100 piloti: una vera ecatombe. La vittoria riportata dai piloti israeliani ebbe, inoltre, forti ripercussioni sul prosieguo del conflitto: il collasso dell’aviazione egiziana stabilì la superiorità aerea israeliana durante i restanti 5 giorni di guerra garantendo così la vittoria finale. Tra il 1968 e il 1970 le tensioni tra Israele e Egitto continuavano a infiammare il Medio Oriente: furono gli anni della cosiddetta Guerra d’Attrito dove l’aviazione israeliana recitò, ancora una volta, la parte del leone. Il 30 luglio 1970, ad ovest del canale di Suez, infuriò una terribile battaglia aerea (dog fight): da 8 a 20 MiG sovietici (non si sa se tutti raggiunsero lo spazio aereo del combattimento) contro 8 Mirage III e 4 F-4 Phantom II dell’ Hel Ha’Avir. Come sempre i bollettini di guerra egiziani parlarono di una grande vittoria, ma la verità era un’altra: i Mirage e i Phantom con la Stella di David inflissero una dura sconfitta agli avversari abbattendo innumerevoli MiG pilotati dagli stessi sovietici (i russi avevano garantito un appoggio diretto agli egiziani con l’invio di personale addestrato: Operazione Kavkaz).

venerdì 4 luglio 2008

Terrorismo


Restiamo in Medio Oriente. Questa volta voglio parlarvi di un libro davvero interessante oltreché avvincente: “L’infiltrato” di Omar Nasiri. La storia di Omar Nasiri – nome falso per ovvie ragioni di sicurezza – passa dal Belgio (suo luogo natio) e arriva in Afghanistan dove riuscirà a farsi reclutare in uno dei campi d’addestramento per terroristi, finanziati e sostenuti da Osama bin Laden. La sua prima esperienza nel mondo della jihad islamica fu al fianco del GIA algerino (dal francese Groupe Islamique Armé): un gruppo di accaniti fondamentalisti che, a causa dei loro efferati delitti contro i civili, furono mal visti dagli stessi jihadisti che lottavano per altre cause, in altri paesi. Dopo aver toccato con mano la spietatezza di questo gruppo islamico, che non risparmiava neppure i bambini dalla lama dei loro coltelli, decise di lavorare per il servizio segreto francese (rappresentato da un enigmatico Gilles). Dopo varie peripezie e l’arresto di alcuni membri della sua stessa famiglia, coinvolti direttamente nel GIA, decise di allontanarsi dall’Europa per cercare una nuova strada in Afghanistan, nei campi dove venivano addestrati i mujahid (i combattenti). Qui scopre una nuova dimensione: lui sa di essere una spia eppure si sente incredibilmente attratto da quelli che sono i valori dell’islamismo, sente di essere in qualche modo attaccato alla sua religione, ma soprattutto agli uomini che, come lui, hanno scelto di intraprendere quella strada. Era forse quello il vero significato di jihad, di lotta che ogni fedele deve fare per raggiungere la perfezione nella professione del suo credo? Il racconto dell’addestramento è veramente appassionante: questi volontari, provenienti da ogni parte del mondo (molti i ceceni), venivano sottoposti a privazioni e a un duro allenamento. Queste difficoltà, la disciplina e il rispetto dei precetti religiosi facevano si che i volontari diventassero una cosa sola: lo spirito era altissimo e la loro fede incrollabile. Una causa, una lotta, un credo: Allah. Omar Nasiri tuttavia muove alcune critiche riguardo i metodi e i mezzi adottati dai suoi fratelli musulmani: la cosa che più lo infastidiva era che la “guerra santa” veniva combattuta con i mezzi dell’occidente, con i libri di addestramento scritti dagli americani (nei campi si usavano i manuali US Army consegnati ai mujaheddin durante la guerra contro l’Unione Sovietica) e con le armi europee o, peggio ancora, di fabbricazione israeliana (le celebri UZI). Oltre a queste ragioni, non ultimo, c’era il fattore “vittime innocenti”: non poteva rientrare in nessun dettame religioso uccidere donne, bambini, anziani estranei a qualsiasi colpa. Questo – Omar – condannava della jihad, il fatto di prendersela contro tutto e tutti, non solo colpendo gli obiettivi politici e militari, ma anche civili inermi. Quando la sua mente s’imbatteva in questo pensiero, allora riusciva a recuperare la sua vera identità: di persona cresciuta in occidente e di spia al servizio della Francia. La fine dell’avventura è un susseguirsi di delusioni … il destino di Nasiri è in balia di persone ambigue che perseguono i loro fini senza badare troppo ai valori umani: i servizi segreti usano le persone, le manipolano e, quando non sono più utili, non esitano a disfarsene. Lottano per il bene? Sono loro i buoni? Questa è una domanda che tutti ci siamo fatti e a cui molti hanno tentato di dare una risposta. Io la verità l’ho trovata nello sguardo delle vittime dilaniate dalle bombe…americane, dei kamikaze, israeliane e palestinesi. Ma ciò significa non prendere nessuna posizione!!! Direte voi. Ebbene in questo caso lungi da me prenderla… io sto con chi resta a terra con il volto coperto di sangue…magari passava di li solo per caso. Il vero significato di terrorismo è “condivisione”… la condivisione della disperazione, del terrore, questa è l’arma più grande di cui dispongono i fondamentalisti islamici e qualsiasi altra organizzazione terroristica. Dopo l’11 settembre il mondo è cambiato: grazie a Osama bin Laden la jihad è diventata globale, nessuno è più sicuro in nessun posto… Osama ha raggiunto il suo obiettivo… vero anche che Bush gli ha dato una mano.

giovedì 26 giugno 2008

New York Yiddish


Camminando per le strade di New York incontriamo frequentemente uomini barbuti, vestiti con un cappotto nero, camicia bianca, un cappello in testa e degli strani ricciolini che scendono sul viso, all'altezza delle tempie. Quello strano signore è un chassid dei Lubavitch, un ebreo ortodosso che nella Grande Mela ha trovato la sua nuova patria. Il libro di Maurizio Molinari, "Gli ebrei di New York" è illuminante per una serie di motivi, primo fra tutti comprendere quale sia il legame tra il popolo di Abramo e gli Stati Uniti. Attraverso un esame "quartiere per quartiere" della grande città americana, l'autore racconta storie, aneddoti, personaggi straordinari, gente comune, luoghi, cultura e tradizoni dell'ebraismo newyorkese. Tra gli anni '20 e '30 del Novecento l'Europa diventò la culla di nuovi totalitarismi - il nazismo, il fascismo e lo stalinismo - che avevano in comune una subdola, poi manifesta, volontà di sterminare il popolo ebraico. Quali fossero le motivazioni di questo accanimento è ormai chiaro; per il nazismo, ad esempio, vi era la ricerca di un colpevole sul quale far ricadere le varie disgrazie che stavano affliggendo la Germania di Weimar, il voler trovare ad ogni costro un capro espiatorio propagandando il famoso "complotto ebraico" che stava prosciugando le forze economiche del grande Reich e che avrebbe messo alle porte di Berlino un'orda bolscevica. Allora ecco le leggi razziali, le stelle di David sui cappotti di uomini e donne di tutte le età, una serie di divieti che resero impossibile la vita degli ebrei tedeschi, austriaci, ungheresi, cechi, slovacchi, polacchi, ecc., e i tragici campi di internamento e sterminio. La macabra ombra di questo movimento "del terrore" si allungò su buona parte del Vecchio Continente: le leggi antisemite furono subito adottate anche dai paesi confinati, prima fra tutte l'Italia di Mussolini, poi complice della persecuzione in grande stile adottata dopo il 1943. Tutto questo diede inizio a una nuova diaspora degli ebrei, una fuga disperata verso la salvezza, verso territori dove nessun uomo sarebbe stato obbligato a portare una stella gialla sul proprio abito. Molti di loro approdarono a New York, cominciando una nuova vita fatta di difficoltà, di stenti, di nostalgie eppure molto più libera e soprattutto senza discriminazioni. Maurizio Molinari ci racconta questa avventura attraverso gli occhi di ebrei famosi, come Elie Wiesel, ma anche di perfetti sconosciuti che, grazie all'America delle grandi opportunità, hanno avuto modo di passare dalla vendita di stracci sui carretti alle sale di Wall Street.

martedì 17 giugno 2008

Piazza d'armi o Piazza de Ferrari?


Adoro le città, adoro le grandi città…mi piace passeggiare tra le gente, guardare le vetrine, ascoltare il rumore del traffico, udire il vociare di mille persone che scambiano ogni genere di opinione, dalla più colta a quella più banale. La città è una giungla fatta di cemento e asfalto, tinteggiata da ogni tonalità di grigio interrotto, di tanto in tanto, dal verde degli alberi e dei giardinetti dove bambini urlanti si passano il pallone o sfrecciano con le loro mini biciclette. Questa è la città: lunghe code alle fermate del bus con persone che imprecano per i constanti ritardi, qualcuno si guarda intorno stando attento ai borseggiatori dalle mani leggere come ali di farfalla, ogni tanto qualche sirena di ambulanza o della polizia urla nell’aria assordando i passanti. Vetrine piene di colori e oggetti di tutti i tipi, di tutte le marche, per tutti i gusti e tutte le tasche. Città dove per strada incontri di tutto: il clochard che dorme ai piedi di qualche gioielleria, il senegalese che tenta di venderti un po’ della sua patria, il sudamericano, l’inglese, il tedesco, il cingalese, ecc. L’unica cosa che farebbe strabuzzare gli occhi dei cittadini sarebbe quella di sentire in lontananza uno sferragliare fastidioso, un rumore di cingoli…un carro armato. Cosa???…direte voi… un carro armato in città, che diavolo di stupidaggini stai dicendo… un carro armato, magari con la fanteria al seguito. Non ho bevuto un whisky di troppo e quello che ho fumato recava sul pacchetto il talloncino dei monopoli di Stato… lo stesso Stato che sta per mandare nella mia amata città i soldati. Premetto non ho nulla contro l’Esercito, sono uno storico militare ed è proprio perché conosco il mondo in grigio verde che esco fuori tema del mio blog per affrontare un argomento alquanto delicato. Il tanto promesso “pacchetto sicurezza” che sta per essere approvato dal governo Berlusconi, prevede l’ausilio dell’esercito per mantenere l’ordine pubblico nelle città. Se mi guardo intorno vedo già uniformi della Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Municipale e, ogni tanto, la Polizia Penitenziaria alla quale, naturalmente, sono state estese le prerogative di polizia giudiziaria, in altre parole ti possono arrestare. Ecco, a tutto questo sfavillare di galloni e distintivi di reparto aggiungiamo il cappello piumato dei bersaglieri, le penne d’aquila degli alpini e il basco amarato dei parà e poi ci ritroveremo a vivere in una mega caserma dove i civili diventano dei “sorvegliati” nel bene e nel male. Ripeto, non ho nulla contro i militari, chi mi conosce lo sa bene, tuttavia l’idea di impegnare i soldati nel mantenimento dell’ordine pubblico mi sembra realmente una delle tante idiozie di questo governo. Fare intervenire le forze armate indica sostanzialmente: 1. L’incapacità della classe politica a gestire qualsiasi situazione d’emergenza; 2. Una palese dichiarazione di debolezza nei confronti della malavita organizzata che ormai, da tempi remoti, spadroneggia in tutto il sud Italia con la connivenza di chi oggi gli vuole mandare i bersaglieri; 3. L’inefficienza della macchina chiamata “GIUSTIZIA” la quale, al posto di mandare i Mangusta, andrebbe foraggiata di personale competente e “libero” da catene politiche. Accidenti il piccolo scippatore diventerà oggetto di mira di un potente Beretta SA 70/90? E chi decide di sparare? Quali sono le regole d’ingaggio per i soldati stanziati nelle città? Chi decide cosa è giusto e sbagliato? E la Polizia cosa deve fare? Mi sembra di vedere uno di quei film hollywoodiani dove Bruce Willis assedia New York con l’esercito… ma per gli americani è fantascienza… qui sta per diventare realtà.

sabato 14 giugno 2008

Il piacere della lettura


Si tratta di un libro che popola gli scaffali delle libreria già da un pò di tempo, tuttavia merita sicuramente due parole. Il libro di Nick Hornby, "Una vita da lettore" è un libro sui libri e su chi, per mestiere, li recensisce fecendoli diventare il suo pane quotidiano. Il libro di Hornby svela, in modo eclettico, il vero significato della recensione, ma soprattutto parla di chi, come me e come molti altri, acquista libri in continuazione anche se, in qualche caso, non sa neppure se un domani li leggerà. Molte volte mi è capitato di entrare da Feltrinelli, un vero paradiso, dove il mio sguardo si perde sui coloratissimi scaffali tinteggiati dalle varie copertine multicolore: il momento della scelta non è mai facile. Cosa leggo? Che cosa cerco? Cosa voglio dal prossimo libro? Guarda che bella copertina, ma le sue tinte sgargianti e il soggetto riportato in copertina rispecchierà anche il contenuto? Allora ti affanni a leggere gli strilli, i riassunti riportati in quarta di copertina, insomma ti metti alla ricerca disperata di quell'indizio mancante che farà del volume che stringi tra le mani, il tuo prossimo libro! Una volta acquistato comincia la vera avventura: a me spesso capita di salire sull'autobus, riuscire a sedermi - per grazia ricevuta da chissà quale divinità del mezzo pubblico - e cominciare a sfogliare avidamente le prime pagine al fine di ottenere ulteriori conferme che avvalorino il mio acquisto. La prefazione di un volume è sicuramente molto importante e il più delle volte viene scritta da qualche autore illustre; da quelle prime righe, fugacemente indagate tra i sobbalzi del bus e gli urti delle persone, inizi a capire qualcosa di più e se anche quell'alto gradino "introduttivo" riesce ad essere oltrepassato...beh... allora è fatta...hai trovato il tuo libro! Niente di più falso... le introduzioni, appunto perchè scritte da personaggi illustri, sono brevi, danno indizi validi, ma nella maggior parte dei casi non esprimono la vera forza narrativa dello scrittore che stai per leggere. Introduzione ingannevole? Introduzione mendace? Sarebbe interessante scrivere un libro sulle introduzioni...e il loro valore. Sono uno storico e per quanto concerne i saggi, il cappello introduttivo ha spesso il potere di accreditare un detreminato percorso di ricerca. Per la narrativa il discorso è diverso... la migliore introduzione al libro che stai per leggere sei tu, il tuo umore, il tuo spirito, la tua volontà di rintracciare determinate emozioni sulle pagine che ti scorreranno davanti agli occhi. Tutto qui... Ovviamente si può dissentire...

venerdì 6 giugno 2008

6 giugno 1944



Una giornata grigia, le nuvole basse quasi a sfiorare il mare, investito dalla forte brezza dell'oceano, nel 1994 passeggiavo sulle spiagge della Normandia in compagnia del mio compagno di viaggio. Le scarpe sprofondavano nella sabbia umida, lambita dall'acqua, un buon sigaro in bocca e la mente proiettata all'indietro, fino a quell'alba del 6 giugno quando migliaia di uomini avrebbero messo in atto un'impresa che nessuno avrebbe mai dimenticato. Americani, inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi, francesi, indiani, e forse dimentico qualcuno... mesi e mesi ad aspettare quel giorno sulle coste dell'Inghilterra meridionale ammazzando il tempo in mille modi, con il pensiero rivolto a casa. Poi finalmente l'ora X, il D-Day. Imbarcati su migliaia di navi, stipati come sardine: chi dormiva, chi scriveva le ultime lettere alla moglie o fidanzata, alcuni giocavano a carte e i più deboli di stomaco vomitavano sporgendosi dai parapetti delle navi. Dall'altra parte...l'esercito tedesco...in eterna attesa che qualcosa accadesse. Il tempo era pessimo e sapevano che nessun comandante avrebbe osato affrontare la Manica con quelle condizioni meteo... eppure...uno squarcio nelle nubi, uno sprazzo di luna convinsero Ike a dare il via. Omaha, Utah, Gold, Juno, Sword, cinque nomi che sarebbero rimasti impressi nella mente dei reduci fino alla loro dipartita. La notte tra il 5 e il 6 giugno il cielo normanno si riempiva di migliaia di ombrelli bianchi: i paracadutisti della 101a e 82a divisione americana, i Red Devils britannici e gli alianti furono i primi a saggiare, dolorosamente, la potenza di fuoco delle armi tedesche. Eppure...nessuno all'alto comando tedesco ci voleva credere...stavano arrivando! Neppure la "Volpe del Deserto", il grande Erwin Rommel aveva preso in considerazione uno sbarco alleato sulle coste normanne. All'alba del 6 giugno...i posti di guardia sul Vallo Atlantico intravidero all'orizzonte una sottile linea nera...non era un effetto ottico... era la più grande flotta mai messa in piedi dai tempi dell'Invincibile Armada, che stava per toccare terra e liberare l'Europa dal giogo nazifascista. Nel giro di poche ore per molti sarebbe cominciata la macabra danza della guerra, per i più sfortunati sarebbe durata un solo istante: la pedana dei mezzi da sbarco, man mano che si avvicinavano alla costa, somigliava sempre più all'antro dell'inferno. Una volta aperta tutti avrebbero perso, per un istante, il controllo sul proprio destino. Lo spazio che separava l'acqua dalla sabbia era infinito...molti affogarono, altri morirono a causa dei proiettili nemici. Uno dei libri più belli che ho mai letto sullo sbarco è quello di Max Hastings "Overlord". Racconta i giorni prima dello sbarco, le ansie del comando alleato, l'irresponsabilità di quello germanico, le storie dei soldati alleati e tedeschi accomunati da un triste destino, quello di fare la guerra. Oggi molti paesi vivono ancora con quel ricordo, ma soprattutto con l'enorme debito nei confronti dell'America: il tributo di sangue di questi giovanotti provenienti dalla California, dal Texas, dal Montana ecc. è stato davvero grande. In quel viaggio ho avuto una grandissima fortuna, conoscerne uno. A Saint-Mere-Eglise un signore molto anziano e corpulento, con grande gentilezza, si è avvicinato toccandomi la spalla e, con gli occhi ancora vivi di ricordi, comiciò a raccontare di quando tocco terra col suo paracadute...a quel punto le pagine dei libri che avevo letto sino a quel momento diventarono bianche...ecco - mi son detto - questo è il libro che vorrei non finisse mai. Lui c'era.

venerdì 30 maggio 2008

Chi tocca muore



Non è possibile dimenticare la scena di "Animal House" quando il preside decide di smantellare il gruppo dei Delta dal campus... lui, con la sua celebre felpa "COLLEGE" è disperato, non sa capacitarsi dell'accaduto... "They took the bar"... (Hanno preso il bar) esclama in preda ad una crisi di panico. Arriva l'amico, Otter credo, prende una bottiglia di Jack Daniels, lo guarda e gliela lancia. Lui l'afferra e con somma soddisfazione se la scola tutta d'un fiato... senza pausa... senza un sussulto...solo qualche misera goccia che cade sulla maglia blu. E il celebre "Food Fight" scoppiato nella sala mensa universitaria? Un personaggio pieno, ricco, stravolgente, troppo potente...il regista John Landis lo aveva capito e dunque Bluto/Belushi doveva avere nel film solo poche parti ... avrebbe attirato troppo l'attenzione su di se, monopolizzando il pubblico a discapito della trama del film. Ma non è solo Animal House (1978)... ricordiamolo in 1941. Allarme a Hollywood (1979 per dir la verità uno dei film meno riusciti di Spielberg), Blues Brothers (1980), I Vicini di Casa (1982), e Continental Divide (1981). John Belushi, attore d'origine albanese, era stato travolto dal successo, dalla celebrità...da se stesso. Amico inseparabile della dannata polvere bianca - che a Hollywood imbiancava persino i tetti delle case - e fedele compagno della bottiglia e di mille tipi di psicofarmaci, Belushi era stato inghiottito da gorgo distruttivo senza via d'uscita. Eppure quando saliva sul palco del Saturday Night Live, oppure arrivava sul set, dava il massimo. Giocava con l'espressioni del suo viso come voleva, bastava un'alzata di sopracciglia per far ridere, commuovere o intenerire. Nonostante la sua mole, non appena partiva la prima nota di un blues o un rock il suo corpo volava, danzava libero, come non riusciva ad essere nella sua vita quotidiana.
Amici? Pochissimi. Come lui stesso aveva ammesso, lo Star System hollywoodiano non può esserti amico, semmai ti dava una mano per affossarti. Niente amici, solo complici del suo lento offuscarsi: "... Ehi arriva John !..." le bustine maledette cominciavano a girare...e lui non sapeva dire di no. Solo Dan Aykroyd gli è stato abbastanza vicino da capire la maledizione che lo aveva colpito. L'autore della sua biografia, Bob Woodward, non ha bisogno di presentazioni: grazie ad una serie d'interviste e ricerche giornalistiche è riuscito a ricostruire la vita travagliata di questo attore scomparso troppo, troppo presto. Woodward ha anche il merito di comporre un ritratto duro, spietato e veritiero delle star di Hollywood le quali pensavano solo a divertirsi, drogarsi e fottere.

sabato 24 maggio 2008

La stella del mattino


"E' vestito di bianco e nessuno può vederlo in volto, perché gli occhi abbagliano fino ad accecare. Ha il potere di distruggere ciò che tocca e il dono di essere ovunque. A volte è solo, a volte guida schiere di cavalieri. Appare e scompare, il deserto è la sua casa, le rocce il suo cibo...Il suo nome vola da un'oasi all'altra. I pellegrini in viaggio verso la Mecca lo avvistano nelle tempeste di sabbia e lo chiamano Iblis, il Diavolo. Tutti lo temono. Anche tu".
In una Oxford piovosa del 1919 s'incontrarono i destini di alcuni uomini che avevano conosciuto il dolore, la disperazione di una guerra combattuta sotto terra, nel fango, nel magma misto di sangue e sporcizia delle trincee. Tra questi personaggi uno aveva evitato tutto questo, non certo per aver mancato al suo dovere nei confronti di Sua Maestà, semplicemente per averlo fatto in modo diverso, seguendo un percorso inusuale, su un terreno che non poteva celare nulla e non poteva essere scavato con facilità: il deserto. La figura protagonista di questo libro meraviglioso e T.E. Lawrence o più semplicemente Ned per gli amici (se ne aveva). Un ritorno a Oxford per scrivere le sue memorie, un riprecorrere i passi dei suoi primi anni da appassionato archeologo che lo portarono, per amor della ricerca, a diventare l'uomo dell'Impero in Medio Oriente. Impacciato con la divisa - ritratto magistrale da Peter O'Toole nel film hollywoodiano - il giovane Lawrence cominciò a scoprire quella terra sabbiosa grazie all'archeologia. Un suolo ricoperto da dune che ben conosceva dopo ore trascorse sui libri che trattavano di Crociate e architettura militare. Un fulmine che cadde nella tranquilla Università di Oxford, un'istituzione dove sembrava che il tempo non scorresse mai, stabile e conservatrice, diffidente verso il nuovo o i tentativi di innovazione. Crogiuolo di menti eccelse un pò eccentriche che, dopo la guerra, erano tornate in compagnia dai loro personalissimi fantasmi, delle loro paure e inquietudini. Vedere e immaginare chissà cosa da un angolo buio della stanza...questo capitava al buon Tolkien, reduce, studioso e vittima (in positivo) della personalità del nuovo arrivato, di Lord Dinamite. Un incontro, una reciproca diffidenza lentamente cancellata, ma mai del tutto scomparsa, soprattutto per quanto riguardava Lawrence. Incontri come quello con il poeta Robert Graves che voleva trasformare la sua angoscia per la guerra in versi di poesia. Se vogliamo capire quello che hanno passato questi uomini leggiamo le pagine del lavoro di Leeds su "La Terra di Nessuno". Tornando a Ned...da questo libro emerge ciò che lui era veramente: controverso, ambiguo, insoddisfatto, alla continua ricerca di qualcosa che aveva smarrito nella polvere di sabbia che adombrava i suoi ricordi. Uno stile di vita particolare reso ancor più inquieto dalle vicende politiche che, a guerra terminata, stavano sconvolgendo tutta la sua opera e la sua reputazione. Il suo amico Feisal, Churchill, il generale Allenby...e l'invenzione britannica dell'Iraq. Tutto questo si mescola - grazie alla sapiente mano di Wu Ming 4 - in una storia avventurosa, introspettiva, affascinate che spinge il lettore, di tanto in tanto, a chiudere gli occhi e viaggiare con T.E. e i suoi compagni oxfordiani, nelle gallerie dei loro tormenti creativi.