giovedì 17 luglio 2008

Hel Ha’Avir - Lo scudo di David (1 parte)


Dopo un po’ di post di argomento generale è con grande piacere che mi rituffo in quella che è la mia materia, la storia militare. L’unico collegamento con i post precedenti è il Medio Oriente, infatti, in queste prima parte (la seconda arriverà a settembre), vorrei parlare di una delle forze aeree meglio addestrate e più potenti al mondo: l’aviazione Israeliana. La forza area con la Stella di David nasce nel 1948, lo stesso anno in cui prendeva forma la costituzione dello Stato d’Israele. All’atto di fondazione lo Stato ebraico, guidato da David Ben Gurion, fu immediatamente aggredito da una coalizione araba formata da Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania. I bagliori della guerra misero subito alla prova la neonata forza aerea israeliana che aveva in dotazione aerei obsoleti, residuati dell’ultimo conflitto mondiale: i tedeschi Messerchmitt BF 109 e i britannici Spitfire. Per di più i piloti non erano assolutamente addestrati al combattimento giacché provenivano quasi tutti dall’aviazione civile. La prima guerra arabo-israeliana fu vinta grazie alla fanteria e all’impiego magistrale dei mezzi corazzati di Moshe Dayan; nonostante tutto anche l’aviazione ottenne successi insperati attribuibili soprattutto alla temerarietà dimostrata dai piloti. Dal 1950 in poi le cose cominciarono a cambiare grazie all’invio di nuovi aerei da parte della Francia e, successivamente, dagli Stati Uniti. La vera prova del fuoco per l’ Hel Ha’Avir arrivò con la Guerra dei Sei Giorni scoppiata il 5 giugno 1967. Il comandate dei reparti aerei, il maggiore generale Mordechai “Mottie” Hod fu il principale fautore della vittoria sulla seconda alleanza araba. Dopo giorni di stressanti trattative per scongiurare la guerra, lo stato maggiore israeliano, guidato da Moshe Dayan e Yitzhak Rabin, prese l’iniziativa approvando l’attuazione del piano “Focus” (Moked). Questo prevedeva la distruzione, in poche ore, dell’intero arsenale aereo egiziano attraverso una serie di attacchi mirati verso le principali basi aeree di Nasser. I caccia egiziani aspettavano, da un momento all’altro, l’attacco d’Israele, tutti i piloti pensavano però che gli aerei avversari si sarebbero levati in volo alle prime luci dell’alba e dunque, non appena il sole fu ben alto, venne ordinato agli aviogetti di pattuglia di rientrare alla base. A livello politico poi, il presidente Nasser, il feldmaresciallo Amer e il tenente generale Sidqi Mahmoud erano certi che il primo ministro israeliano, Levi Eshkol, non avrebbe mai autorizzato un attacco preventivo senza il consenso degli Stati Uniti i quali, sin dai primi giorni della crisi, avevano supplicato il governo israeliano di non raccogliere le provocazioni egiziane.
Mentre nelle basi del Sinai i piloti e il personale di terra svolgeva regolare servizio, gli aerei israeliani avevano già lasciato la pista e stavano volando, quasi rasoterra, verso i loro obiettivi. Una volta giunti in prossimità degli aeroporti egiziani i caccia-bombardieri israeliani cabrarono fino a 2500 metri d’altezza per poi cominciare la picchiata sui loro obiettivi. Quando nelle stazioni radar egiziane si accorsero della presenza massiccia di caccia nemici, era ormai troppo tardi. In pochi minuti gli aerei di Tel-Aviv piombarono come falchi sugli hangar dell’aviazione militare egiziana: grazie alle potenti bombe BLU 107 Durandal le piste furono devastate e rese inutilizzabili, la maggior parte degli aerei fu distrutta al suolo mentre, i pochi MIG egiziani che riuscirono a staccarsi da terra, vennero subito intercettati e abbattuti dai Mirage di “Mottie” Hod. Tra gli obiettivi principali dell’aviazione israeliana c’erano 30 bombardieri di fabbricazione sovietica TU-16 “Badger” i quali, se si fossero diretti verso le città d’Israele, avrebbero inflitto una dura lezione alla popolazione civile. Il successo di Focus costò all’aviazione di Nasser la perdita di circa 300 aerei e 100 piloti: una vera ecatombe. La vittoria riportata dai piloti israeliani ebbe, inoltre, forti ripercussioni sul prosieguo del conflitto: il collasso dell’aviazione egiziana stabilì la superiorità aerea israeliana durante i restanti 5 giorni di guerra garantendo così la vittoria finale. Tra il 1968 e il 1970 le tensioni tra Israele e Egitto continuavano a infiammare il Medio Oriente: furono gli anni della cosiddetta Guerra d’Attrito dove l’aviazione israeliana recitò, ancora una volta, la parte del leone. Il 30 luglio 1970, ad ovest del canale di Suez, infuriò una terribile battaglia aerea (dog fight): da 8 a 20 MiG sovietici (non si sa se tutti raggiunsero lo spazio aereo del combattimento) contro 8 Mirage III e 4 F-4 Phantom II dell’ Hel Ha’Avir. Come sempre i bollettini di guerra egiziani parlarono di una grande vittoria, ma la verità era un’altra: i Mirage e i Phantom con la Stella di David inflissero una dura sconfitta agli avversari abbattendo innumerevoli MiG pilotati dagli stessi sovietici (i russi avevano garantito un appoggio diretto agli egiziani con l’invio di personale addestrato: Operazione Kavkaz).

venerdì 4 luglio 2008

Terrorismo


Restiamo in Medio Oriente. Questa volta voglio parlarvi di un libro davvero interessante oltreché avvincente: “L’infiltrato” di Omar Nasiri. La storia di Omar Nasiri – nome falso per ovvie ragioni di sicurezza – passa dal Belgio (suo luogo natio) e arriva in Afghanistan dove riuscirà a farsi reclutare in uno dei campi d’addestramento per terroristi, finanziati e sostenuti da Osama bin Laden. La sua prima esperienza nel mondo della jihad islamica fu al fianco del GIA algerino (dal francese Groupe Islamique Armé): un gruppo di accaniti fondamentalisti che, a causa dei loro efferati delitti contro i civili, furono mal visti dagli stessi jihadisti che lottavano per altre cause, in altri paesi. Dopo aver toccato con mano la spietatezza di questo gruppo islamico, che non risparmiava neppure i bambini dalla lama dei loro coltelli, decise di lavorare per il servizio segreto francese (rappresentato da un enigmatico Gilles). Dopo varie peripezie e l’arresto di alcuni membri della sua stessa famiglia, coinvolti direttamente nel GIA, decise di allontanarsi dall’Europa per cercare una nuova strada in Afghanistan, nei campi dove venivano addestrati i mujahid (i combattenti). Qui scopre una nuova dimensione: lui sa di essere una spia eppure si sente incredibilmente attratto da quelli che sono i valori dell’islamismo, sente di essere in qualche modo attaccato alla sua religione, ma soprattutto agli uomini che, come lui, hanno scelto di intraprendere quella strada. Era forse quello il vero significato di jihad, di lotta che ogni fedele deve fare per raggiungere la perfezione nella professione del suo credo? Il racconto dell’addestramento è veramente appassionante: questi volontari, provenienti da ogni parte del mondo (molti i ceceni), venivano sottoposti a privazioni e a un duro allenamento. Queste difficoltà, la disciplina e il rispetto dei precetti religiosi facevano si che i volontari diventassero una cosa sola: lo spirito era altissimo e la loro fede incrollabile. Una causa, una lotta, un credo: Allah. Omar Nasiri tuttavia muove alcune critiche riguardo i metodi e i mezzi adottati dai suoi fratelli musulmani: la cosa che più lo infastidiva era che la “guerra santa” veniva combattuta con i mezzi dell’occidente, con i libri di addestramento scritti dagli americani (nei campi si usavano i manuali US Army consegnati ai mujaheddin durante la guerra contro l’Unione Sovietica) e con le armi europee o, peggio ancora, di fabbricazione israeliana (le celebri UZI). Oltre a queste ragioni, non ultimo, c’era il fattore “vittime innocenti”: non poteva rientrare in nessun dettame religioso uccidere donne, bambini, anziani estranei a qualsiasi colpa. Questo – Omar – condannava della jihad, il fatto di prendersela contro tutto e tutti, non solo colpendo gli obiettivi politici e militari, ma anche civili inermi. Quando la sua mente s’imbatteva in questo pensiero, allora riusciva a recuperare la sua vera identità: di persona cresciuta in occidente e di spia al servizio della Francia. La fine dell’avventura è un susseguirsi di delusioni … il destino di Nasiri è in balia di persone ambigue che perseguono i loro fini senza badare troppo ai valori umani: i servizi segreti usano le persone, le manipolano e, quando non sono più utili, non esitano a disfarsene. Lottano per il bene? Sono loro i buoni? Questa è una domanda che tutti ci siamo fatti e a cui molti hanno tentato di dare una risposta. Io la verità l’ho trovata nello sguardo delle vittime dilaniate dalle bombe…americane, dei kamikaze, israeliane e palestinesi. Ma ciò significa non prendere nessuna posizione!!! Direte voi. Ebbene in questo caso lungi da me prenderla… io sto con chi resta a terra con il volto coperto di sangue…magari passava di li solo per caso. Il vero significato di terrorismo è “condivisione”… la condivisione della disperazione, del terrore, questa è l’arma più grande di cui dispongono i fondamentalisti islamici e qualsiasi altra organizzazione terroristica. Dopo l’11 settembre il mondo è cambiato: grazie a Osama bin Laden la jihad è diventata globale, nessuno è più sicuro in nessun posto… Osama ha raggiunto il suo obiettivo… vero anche che Bush gli ha dato una mano.